"A casa non s'arriva mai, ma dove confluiscono vie amiche, il mondo per un istante sembra casa nostra" (H.Hesse)
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martedì 10 marzo 2015

Collocazioni - Ciambellone di riso all’acqua e agrumi


Arrivano dal bagno le note dello stornello romanesco di cui l’amato bene è un grande estimatore.
E arrivano appropriate, pertinenti, mai più azzeccate.
Mi ci rivedo in pieno in quell’accorata preghiera in musica col cuore in mano:
tiemme na mano ‘n testa pe’ di’ de noooooo” (= all’istinto di insultarlo, dicendogli, per esempio, che non si può comporre uno scatolone che contenga, come recita il biglietto incollato fuori: “fotografie/documenti/soprammobili camino e 1 anfibio”. Non si può. Nemmeno se l’anfibio serviva a “riempire un buco”. E la stessa sorte, si badi bene, è toccata a infradito/ciabatte invernali e da piscina: spaiate forse per sempre, all’unico, strampalato scopo di riempire vuoti…).
Roma nun fa la stupida stasera quindi mi entra forzatamente in testa trasformandosi nella vibrante supplica di frenare eventuali istinti brutali.
Al di là del fatto tuttavia che l’evento trasloco esponga al rischio di divorzio un giorno sì e l’altro pure, vivere in una casa quasi vuota offre i suoi innumerevoli vantaggi.
Tanto per cominciare non bisogna spolverare.
E al massimo la questione si riduce al passaggio veloce di uno straccio su un ripiano, senza incontrare ostacoli.
Quindi un mobile tipo la libreria, che anche solo decidere di spolverarlo richiedeva un atto di coraggio fuori dal comune, adesso è una passeggiata di salute.
Anche perché ora la libreria non è più tale ma ha assunto lo status di “quartier generale”, il luogo cioè in cui confluiscono materiali di vario tipo utile alle operazioni di inscatolamento.
Altro vantaggio è quello di poter usare il forno con una libertà quasi sconosciuta.
Prendi, accendi e inforni.
Non lo devi preliminarmente svuotare di tutti gli stampi che di solito lo invadono perché non si sa dove altro metterli.
Questa condizione, per esempio, mi era quasi del tutto sconosciuta.
Si scoprono altri sistemi di vita, vengono rase al suolo abitudini secolari e sradicati solchi mentali atavici.
Tipo che l’insalata la devi mettere per forza nella solita ciotola un po’ sbeccata che usi da anni e girare per forza con “le posate da insalata”.
Messe via sia l’insalatiera sia le posate specifiche, ti adatti con quel che c’è.
E scopri che la puoi mangiare lo stesso!!
Che sopravvivi.
Oppure che mentre prima avevi uno stock di canovacci sparsi per la cucina, più grembiule, più pezzette e spugne varie, tutti assolutamente vitali, scopri che anche solo un paio di questi più: 1 pezza e 1 panno giallo riescono agevolmente a coprire tutte le esigenze e placare tutte le ansie.
Che non serve un servizio da 12 tazzine di caffè, ma le due rimaste sono più che sufficienti.
Che per cucinare bastano 1 padella e 1 pentola.
E l’intera batteria riposta quasi te la dimentichi.
Quasi.
Poi ti coglie il raptus.
È come un gioco al rialzo, una sfida contro il tempo.
Lo stampo per ciambellone lo imballiamo per ultimo.
Lo sbattitore elettrico potrebbe servirmi fino alla sera prima del trasloco.
Sì ma se ho messo via tutte le caccavelle, dove le sbatto le uova con lo zucchero?
Dettagli, perché è così che si producono dolci pure nell’inferno di plastica e cartone.
Con quel che c’è.
e andranno bene pure 5 fette di limone spiaccicate sopra come "decorazione".
Ce la facciamo andare bene, mi ripeto che è bellissima, arrivo a convincermene perfino.
Certo non ho sfondi, tovaglie, carte colorate, pannelli, nastri e fiori per allestire set fotografici.
Non so bene nemmeno dove appoggiarlo il dolce.

Ma la sommità di uno scatolone sarà pur sempre un piano d’appoggio.
(dopo averlo fotografato sul mobiletto del bagno)

Non sono mancati nemmeno i fiori per la festa della donna (sì, non è sempre e solo da insultare l'amato bene...e toh: siamo già a marzo? e la Violaciocca a ricordarci che è pure quasi Pasqua...).
Perché anche se non si sa dove collocarli ci si può sempre attrezzare.
E donano sempre picchi di felicità.
Mica servono per forza vasi.
E sempre cercando strade, soluzioni e collocazioni, abbiamo preso pure un aereo andata e ritorno in giornata per il Piemonte.
Imbarco/decollo/volo/atterraggio/sbarco: tutto alla velocità della luce.
E poi pullman/treno/metropolitana/tratti a piedi/visita medica, che era poi lo scopo della gita (come se non ci fossero medici a Roma, ma io volevo proprio quello).
Ri-pullman/ri-treno/ri-metropolitana/imbarco-sbarco: olpà di nuovo a casa!
Tutto dall’alba a poco prima del tramonto.
(peccato, mancava giusto un giro in battello)
Ma è stacco, svago, sole, novità. Ci voleva perfino.
E pazienza se da oggi toccherà cambiare stile di vita: niente questo/niente quello/niente di niente di tutto ciò, ovviamente, che più piaceva.
Caffè, cioccolato, aceto, menta e mentine.
Dolci e dolcetti.
Pasta pane e pizza.
Ma sono dettagli.
Casa nuova, vita nuova.
E per una volta, strano ma vero, sono esattamente dove volevo essere.

 Almeno io.

(Poi per anfibi e infradito, è tutta un’altra storia)


@@@@@@@@@@@@


Io non avevo mai usato la farina di riso prima d’ora. Non conoscevo nemmeno “ il ciambellone più soffice del mondo di Adelaide Melles” di cui lei parlava nel post. Figuriamoci la versione con dentro la marmellata. Con la marmellata avevo fatto una torta morbida e un plumcake, questo sì, ma mettere dell’acqua nell’impasto di un ciambellone, mi mancava proprio.
Quando ho letto di questa torta quindi, con ingredienti e passaggi a me totalmente sconosciuti e perlopiù stranucci, non mi sono proprio potuta esimere.
 Ho avuto dubbi sul quantitativo di zucchero, che mi sembrava eccessivo (la stessa quantità della farina!) ma mi sono fidata come sempre faccio con le sue ricette e ho fatto molto bene!
Ho superato le perplessità sulla glassa, io che le glasse non le amo per niente (a meno che non siano di cioccolato!) e ci ho schiaffato, diligentemente, pure quella.
Unica eccezione la marmellata di arance amare anziché di limoni, ma giusto perché ne avevo un barattolo aperto in frigo.
Per il resto: altra straordinaria rivelazione! Un ciambellone che più soffice non potrebbe essere, umido ma senza l’effetto di “poco cotto”, praticamente una nuvola di gusto e di bontà.
Fino a che non l’ho provato, non ci credevo: la consistenza mi ha davvero stupita e conquistata definitivamente (ancora una volta: grazie Claudia!! E questa ricetta, d'ora in poi, dovendo usare solo farine alternative a quella di grano, mi sarà più utile che mai!)



Ingr.: (per uno stampo a ciambella diam. cm. 23)
3 uova
gr. 250 di zucchero semolato di canna
gr. 130 di olio di semi di mais girasole
gr. 130 di acqua
gr. 250 di farina di riso 
 1 bustina di lievito vanigliato
1 bustina di vanillina
gr. 250 di Fiordifrutta limoni Arance amare Rigoni di Asiago
1 pizzico di sale

per la glassa:
gr. 40 di zucchero a velo 
gr. 60 di zucchero semolato leggermente frullato (questa è stata una mia scelta, per avere l'effetto "scrocchiarello", ma potrete decidere di utilizzare direttamente gr. 100 di zucchero a velo, per una glassa normale)
succo di 1/2 limone
limoncello


Preparazione:
In una ciotola con le fruste elettriche, sbattere le uova con lo zucchero e il pizzico di sale per circa 10 minuti, così da ottenere un impasto chiaro e gonfio. Aggiungere poco per volta la marmellata e a filo anche l'olio e l'acqua. Unire infine la farina setacciata con il lievito e versare in uno stampo precedentemente unto ed infarinato.
Cuocere in forno già caldo a 180° per circa 40 minuti facendo sempre la prova stecchino.
Appena sarà freddo, toglierlo dallo stampo e guarnirlo con una glassa preparata con lo zucchero, un goccio di succo di limone e uno di limoncello.






mercoledì 25 febbraio 2015

L’inconfessabile – Millefoglie veloce al pistacchio


Eccoci.
Tra scatoloni, pile di quotidiani, rotoli di plastica “a pallini” e scotch da imballaggio.
Che non è uguale al nastro adesivo, largo e marrone.
L’ho scoperto andando a comprare l’ennesimo rotolo e restando mezz’ora davanti allo scaffale del negozio cinese, in contemplazione di tutta la varietà.
Marrone scuro/bianco/beige/trasparente, non sono colori da scegliere solo su ispirazione (estetica) del momento (come inizialmente ho fatto io), ma vanno proprio in base all’uso che se ne deve fare.
E l’ho scoperto all’ennesimo cartone che, tirandolo su, mi si riapriva nella parte inferiore rilasciando tutto il suo contenuto, delicato o meno.
O quando tiravo una striscia di scoth da una parte all’altra e scoprivo che mi aveva seguita fedelmente scollandosi all’istante.
Ecco: serve quello trasparente, proprio lo scotch da imballaggio, il più resistente.
E poi sono scaffali vuoti, ripiani deserti, pareti sconfinate.
Scatoloni, pieni e vuoti, accatastati in ogni dove

Che uno dice: quante cose mai potranno esserci in 45 metri quadri di casa?
Considerando che al momento (e sono trascorsi una decina di giorni dall’inizio dello smantellamento), devono ancora essere affrontati: piatti/bicchieri/pentole/padelle posate e poi vestiti/scarpe/biancheria per la casa/borse...e che la cinquantina di scatoloni finora transitata da queste parti è servita per libri (e poi libri…e ancora libri), soprammobili, quadri, quadretti e fotografie, gingilli vari, più tutta la collezione di tazze da ogni viaggio (la quale da sola ha richiesto una mezza giornata di lavoro fra: tira giù, lava, riasciuga, imballa per bene, disponi gommapiuma intorno e trasporta in angolo sicuro della casa dei suoceri affinché non abbia a subire botte e scossoni), va da sé che il lavoro sporco resta ancora tutto da fare.
Il bello deve venire insomma.
Per quanto mi riguarda mi sono lasciata il meglio.
Questioni spinose per le quali mi tocca chiamare a raccolta tutto il coraggio e soprattutto aspettare che l’amato bene non sia in casa, perché certe questioni vanno affrontate in solitudine, lontani da sguardi indiscreti.
E sono:
-smontare tutta la scarpiera-portabigiotteria già sapendo che non farò quella cernita che avevo promesso tutta fiera in uno slancio di ottimismo, ma mi porterò dietro pure orecchini/collane/braccialetti rotti o spaiati.
-esaminare tutto il settore stampi/teglie/sparabiscotti/formine/sbattitori elettrici/mandoline/setacci/vassoi e alzatine, cosciente che continuerà a servirmi tutto, anche quello che non ho mai nemmeno aperto e perfino ciò del cui modo di utilizzo non ho nemmeno idea.
-sottoporre a cernita tutte le 30-40 borse fra tracolle/pochette/zaini/secchielli/shopper/accumulate negli anni (certa che nemmeno gli esemplari dei tempi del liceo riuscirò a far fuori)
-mettere le mani nel cassetto della cancelleria (e in tutti i cesti/cestini/raccoglitori/portapenne/astucci e scatoline di latta del Mulino Bianco di quando avevo 12 anni, sparsi per la scrivania) traboccante di post-it/block-notes/moleskine/biglietti d’auguri/appunti /numeri del dottore/massime e aforismi/adesivi dei miei piccoli amici/strisce di fumetti e opuscoli vari, disseminati in ogni dove che così come si trovano, verranno solo rimossi dalle pareti della libreria, del cassetto, della scrivania e portati via per poter essere poi riappiccicati, da qualche parte, nella casa nuova.
Ecco perché certe cose vanno fatte da sole: che come glielo spieghi a lui che fra tutti i cartoni che a mano a mano si carica giù per le scale e va a smistare tra casa dei miei e casa dei suoi in attesa di incollarseli nuovamente uno a uno per portarli a casa nuova quando finalmente ne avremo le chiavi, ce ne sono 3 pieni solo di vecchie riviste di cucina?
E una scatola traboccante solo di ritagli di giornale su argomenti vari (libri/recensioni di film/suggerimenti di viaggio/luoghi da vedere) e un’altra piena di gomme da cancellare dalle mille forme e mozziconi di matita di quando andavo a scuola, ma pure di quando lavoravo con fogli, libri e, appunto, tante matite?
Certe cose non si confessano. Si fanno e basta.
Il mio contributo poi è come al solito fondamentale e imprescindibile.
Amore, tra sabato e domenica acceleriamo un po’ e cerchiamo di imballare più roba possibile, eh?” mi incoraggia lui tutto gaio, cercando di dissimulare un filo d’ansia che, nonostante l’aria sempre calma e rassicurante, è pure la sua.
Che durante la settimana non abbiamo mai tempo, ci incontriamo di rado e solo a tarda sera sfatti, e un po’ d’affanno, con una scadenza precisa davanti, ci prende eccome.
Sì sì certo!” – lo rassicuro io credendoci pure.
Ma ecco che  incarto e inscatolo solo il sabato mattina e precisamente dalle 9:45, ora in cui esco dal bagno (con comodo, così come mi sono alzata) fino a  circa le 14: in cui ci sediamo a mangiare, e tolto pure il tempo di mettere su la pila dell’acqua, apparecchiare e condire l’insalata.
Dopodichè: febbre/letto/aerosol, in ordine sparso e alternato.
Io.
Lui impacchetta.
Smista
Porta scatoloni giù per le scale.
Li carica in macchina
Li riporta su dai suoi (che almeno hanno l’ascensore)
Sollevando e riposando ogni scatolone un numero imprecisato di volte.
Quindi ora, in mezzo al delirio di scatoloni, carta, scotch, cose da imballare e cose che devono rimanere fino all’ultimo (perennemente a rischio di essere confuse e scambiate), ora c’è pure la macchinetta dell’aerosol con tutti i suoi aggeggi.
Le scatole di medicine e quelle della soluzione fisiologica.
Il termometro e le scorte di fazzoletti.
E guardiamo i lati positivi però:
mezza casa è già smontata
all’altra mezza si penserà.
E per finire, qualche numero al volo:

Totale scatoloni fino ad ora

Miei: 28.
Suoi: 3.
(+ canne da pesca e cassetta degli attrezzi, però).

Totale cose buttate (con eroico coraggio)

Mie:  3
(-1 stampo da plumcake in disuso da 4 almeno anni perché arrugginito
-1 mollettone di quando avevo i capelli lunghi (circa 3 anni fa)
-1 copriasse da stiro mezzo bruciato e senza più l’elastico, tenuto però prudentemente da parte)

Sue: un centinaio, considerando solo l’intera collezione di musicassette dei maggiori cantautori italiani (di cui andava molto fiero, ma che adesso “che ce faccio?”)

…posso mai dirgli che ho imballato perfino 3 esemplari di rose (secche ovviamente) che mi aveva regalato nel lontano 2010 non ricordo nemmeno più in che occasione?
O il biglietto della metro di Pechino e la bustina di zucchero dell’agriturismo in Umbria?
Riservatezza, gente: o il divorzio è dietro l’angolo!

@@@@@@@

Confessargli certe cose no, ma preparargli un dolcetto a scappar via è il minimo. Di quelli che proprio puoi fare in una manciata di minuti, a parte cuocere la crema. Adottando tutte le scorciatoie possibili, a cominciare dalla pasta sfoglia pronta, ma proprio pronta: nel senso, anche già cotta, nemmeno lo sforzo di srotolarla, cospargerla di zucchero, ritagliarla e metterla al forno!
Perché chi l’ha detto che non si possa fare un millefoglie pure nel bel mezzo di un trasloco?
Io no di certo.



 Ingredienti 
3 basi di pasta sfoglia pronta (300gr)
0,6 lt di latte
65 gr di zucchero + 1 altro cucchiaio
3 tuorli
45 gr di farina
1 bustina di vanillina
120 ml di panna da montare

Inoltre:
1 confezione di biscotti di pasta sfoglia ripieni alla crema
Abbondante zucchero a velo
100 gr di gocce di cioccolato extrafondente
50 gr di pistacchi


Procedimento
Preparate la crema calcolando che dovrà riposare in frigo per almeno due ore.
Mettete il latte a scaldare con l’aroma di vaniglia. Sbattete i tuorli con lo zucchero e quando saranno un po’ spumosi aggiungetevi progressivamente la farina setacciata, quindi il latte caldo a filo continuando a mescolare.
Fate cuocere la crema su fuoco lento mescolando continuamente finché non si addensa e per altri 5 minuti a partire dal momento in cui comincia a fare le bolle.
Lasciatela quindi raffreddare ricordandovi giusto di mescolare ogni tanto per far sì che non si formi la patina.
Una volta fredda riponetela in frigorifero per il tempo necessario.
Al momento di assemblare il dolce montate la panna (ben fredda) con 1 cucchiaio di zucchero (e meno che non sia già zuccherata) e poi aggiungetela alla crema amalgamando bene.
Scegliete un vassoio e sporcatelo con una cucchiaiata di crema prima di sistemarci sopra il primo rettangolo di pasta sfoglia: servirà a tenere ferma la torta che altrimenti scivolerà da tutte le parti rischiando di rompersi o peggio di cadere! (a me ovviamente si è rotto giusto l’ultimo quadrato, ma poi lo zucchero a velo copre tutte le magagne!)
Ricoprite con uno strato generoso di crema (avendo cura di lasciarvene da parte un paio di cucchiai per “incollare” i biscotti alla fine), cospargete con abbondanti gocce di cioccolato, quindi mettete il secondo quadrato, altra crema e i pistacchi tritati grossolanamente.

Terminate con l’ultimo rettangolo e spolverizzate abbondantemente di zucchero a velo.

 Mettete un puntino di crema su ogni biscotto e incollatelo facendo una cornice al millefoglie, allontanatevi un attimo per ammirare il capolavoro (ed eventualmente utilizzare anche quel residuo di crema facendo una cupoletta sulla sommità del dolce e ricoprendola di gocce di cioccolato) e riponete in frigo.

martedì 17 febbraio 2015

Sdolcinatezze - Torta di radicchio, finocchi e speck


È andata così, un paio di settimane prima.
Nel modo più sdolcinato e romantico possibile.
Come è nel nostro stile, del resto.
Mio di alcuni precipui momenti, soprattutto.
E soprattutto quando la mente (e pure ogni fibra del corpo e ogni singolo nervo) è tutta proiettata verso l'imminente trasloco, la roba da impacchettare, gli scatoloni da spostare da una casa all'altra; 
poi ad altri due appuntamenti, di una certa rilevanza, che naturalmente vanno a capitare, a ciccio, giusto una manciata di giorni prima e uno il giorno stesso del rogito. 
Tanto per non farsi mancare niente.
Insomma: ce n'è di che litigare e sbranarsi a ogni sillaba pronunciata.
Un foglio abbandonato sul divano, l’aria dell’amato bene davvero poco circospetta e l’attenzione tutta rivolta, piuttosto, ai titoli del telegiornale.
Io che, appena rincasata e ancora col piumino addosso, mi avvicino già sul piede di guerra (ho pulito stamattina, ho tolto di mezzo tutti gli impicci possibili e immaginabili: te pare che questo me deve lascià  fogli sparsi dappertutto?).
I sensi in allerta, gli artigli tesi, pronti a sferrare l’attacco.
che è sta roba?” domando con la grazia innata che (in alcuni momenti) mi è propria, tirandolo giù dalla nuvoletta grigio-fumo sulla quale si è rintanato a cogitare sulle notizie del giorno facendo a malapena caso al mio rientro.
Mi guarda, si illumina di colpo, realizza che in casa non è più solo, che sono tornata!
E me lo dice così:
amore, ma è il regalo per san valentino!!!
Caspita.
Siamo a fine gennaio, ma lo so che lui ama fare le cose per tempo.
Organizzarsi.
Programmare.
Ricaccio dentro l’insulto e leggo al volo magiche parole sparse, quelle capaci di dare una svolta anche alla serata più difficile, allo scazzo più intenso, alle lacrime già in procinto di rotolare giù:
 booking/prenotazione confermata/colazione inclusa.
Vedo l’immagine di una stanza, di un boschetto, di un cuoricino disegnato.
Dove non importa, l’importante è che si vada.
Avresti sempre voluto vedere il parco dei mostri di Bomarzo, bene: ci andiamo a s.Valentino e dormiamo pure lì!...cioè: non dentro il bosco, in un b&b nei dintorni e ne approfittiamo per andare a vedere pure Civita di Bagnoregio. Contenta??”.
E io che ero pronta ad azzannarlo.
Che, chiamati già a raccolta i coreuti, stavo per afferrare quel foglio, appallottolarlo e rinfacciargli che aveva osato abbandonarlo così, sul divano.
Cuore mio.
Ma a quel punto si pone la domanda su come ricambiare.
Che si vabbè i baci e i cuori di cioccolato, ma un po’ di sostanza ci vuole.
Non fosse altro che per scontare l’affronto di un insulto anche solo formulato mentalmente.
Come minimo devo stupirlo anche io.
Farmi venire in mente un’idea altrettanto romantica.
Escogitare un pensiero parimenti amorevole.
Una cenetta a lume di candela?
Preparargli il suo dolce preferito?
Reperirgli per l’ennesima volta badilate di marmellate e confetture particolari di cui è molto ghiotto ma che ormai ha assaggiato in tutte le versioni e di tutti i gusti compresa quella di mirtillo con succo d’agave?
(no, perchè poi tocca traslocà pure quelle)
Cosa non gli ho già regalato nei 23 san valentino pregressi?
Forse una spedizione su Marte, perché per il resto ha avuto in sorte ogni oggetto possibile, utile o simbolico, tangibile o fruibile mettendosi in viaggio.
Ed è così che pensa che ti ripensa mi viene in mente il regalo giusto, quello che –caso strano- ancora non gli ho mai fatto.
Proprio mai.
Una cosa che avrebbe sempre voluto comprarsi ma non ha mai osato farlo, con la motivazione (ineccepibile) che “tanto che ce devo fa?” (salvo poi rammaricarsi di non averlo perché in certe occasioni la legge lo prevede…).
Un regalo che più romantico non esiste.
Più sdolcinato non sarebbe possibile.
Più simbolico e significativo non si potrebbe immaginare.
….
Le catene da neve per la macchina!
Che come si chiede ancora un mio amico scrittore, dopo avergliene parlato: “Quali proiezioni dell’inconscio spingono una donna a regalare catene?
…Ti lego a me?
…Non scivolare?
No ma de che: l’esaurimento di idee, piuttosto!
Semplicemente.
Altro che poesia.
E poi la facilità con cui si reperiscono potendo contare su un fratello carrozziere.
“leggi la sequenza numerica sui copertoni e mandamela via sms, che te le ordino dal nostro fornitore”.
Manco lo sforzo di cercarle, andarle a comprare, trascinarsele dietro (che pesano pure).
Ah, e già che c’ero, anche senza lo sforzo di fare il pacchetto: “mamma mi raccomando, quando arrivano incartamele per bene che io non ho tempo, poi passo a prendermele. E mettici un fiocco, non te lo scordare!!”.
Perché il mio romanticismo, a volte, non ha limiti.
Perché se fa la neve a Roma, e diramano l’obbligo di avere le catene a bordo, oplà: noi siamo a posto!
Inutile dire che ha apprezzato come se a me avesse regalato l’ultimo modello di Trilogy.
 Che del resto: Bomarzo a febbraio/catene…c’era pure una qualche attinenza, no?

@@@@@@


A volte il radicchio è davvero amarognolo. Con i finocchi, si stempera. Con lo speck e la gratinatura di parmigiano diventa un sogno a occhi aperti…e la torta perfetta da mangiarsi sul divano davanti alla partita o a Sanremo appena lasciato alle spalle…


Ingredienti (per uno stampo a cerniera da 24 cm di diametro)

Per la base
150 gr di farina integrale
100 gr di semola di grano duro
50 gr di farina di farro
130 ml di vino bianco
70 ml di olio extravergine d’oliva
1 cucchiaino raso di sale

Per il ripieno
1 pallotta di radicchio
3 finocchi
100 gr di speck
2 scalogni
2 cucchiai di parmigiano
2 cucchiai di pangrattato
Sale
Pepe
Olio extravergine d’oliva

Procedimento
Tagliare il radicchio a metà, quindi a striscioline e raccoglierlo in una ciotola piena d’acqua. Sciacquarlo e scolarlo bene. Mondare i finocchi e tagliare anche quelli a fettine non troppo spesse.
Scaldare dell’olio insieme agli scalogni affettati in una larga padella, quindi unire le verdure e far saltare qualche minuto, aggiustando di sale e pepe. Da ultimo unire anche lo speck tagliato a striscioline, mescolare bene e lasciare raffreddare.
Preparare la base riunendo le farine e il sale in una ciotola. Aggiungere gradualmente il vino e l’olio e impastare fino a ottenere un composto liscio ed elastico. Disporlo in uno stampo a cerniera oliato e stenderlo con le dita rialzandolo bene sui bordi. Spolverizzare la base di pangrattato e riempirla con le verdure cotte in precedenza. Terminare con una spolverata di parmigiano e cuocere in forno a 180° per circa 35-40 minuti, secondo il forno.




venerdì 30 gennaio 2015

Il peso delle parole (al quadrato) - Torta Ciocco-Cocco-Pere al Rum


Esistono parole intraducibili.
Termini unici e irripetibili il cui significato non è riproponibile in un’altra lingua e la cui traduzione è sempre un piccolo-immenso tradimento.
Un compromesso, un patteggiamento che non rendono loro giustizia.
Bisogna rassegnarsi a non tradurli, sforzandosi al massimo di capirli bene nella lingua in cui sono nati.
Questo vale ancora di più per i dialetti.
Parole intoccabili, concetti esprimibili solo in un modo e in nessun altro.
Come rendere altrimenti un concetto come “sderenato”?
Certo chi è romano non faticherà a capire. Ma gli altri?
Possono essere mai rese la forza intrinseca e la gravità di un vocabolo simile?
Che non è solo “stanco morto” o “acciaccato e dolorante”.
E non è nemmeno qualcosa tipo: “ in preda a una lancinante lombalgia”.
Per quanto il vocabolario Treccani ne dia un significato anche tecnico, definendolo
participio passato di sderenare
premurandosi di specificare che si tratta di un regionalismo e suggerendo come termini simili
sfiancato
o, meglio ancora,
slombato!!!! (giuro!)
Perché qui signori entrano in gioco organi profondi.
Concetti altissimi, scenari medici inarrivabili.
I reni.
Che già nell’uso dell’articolo maschile esprimono tutta la forza dell’addoloramento.
Perché se il femminile si usa per indicare in generale quella parte di schiena, il maschile si riferisce  proprio agli organi.
E qua mica vogliamo essere generici e approssimativi.
Ecco, io quando esco dalla palestra il mercoledì (che non faccio posturale ma quell’altra roba decisamente più faticosa), mi sento esattamente così: sderenata.
E non esiste una parola parimenti appropriata.
Che possa rendere così bene l’idea.
Perché non ne esco, per dire: sfinita, distrutta, stanca, provata, dolorante, acciaccata, incriccata.
No no: proprio SDERENATA.
E che è giusto un barlume di come mi sento il mattino dopo, dopo averci anche dormito sopra.
Cioè sderenata all’ennesima potenza.
Che sia un po’ teatrale e un pelo melodrammatica ne sono cosciente io stessa.
Però giovedì scorso, all’indomani dello sderenamento indotto, io ne sentivo anche un altro supplementare.
Un che di diffuso, come un malessere generale.
Mal di ossa.
Mal di schiena (e di tutti quei muscoli e muscoletti finora sconosciuti e messi in moto tutti insieme, meschini).
Perfino mal di pelle!
Mi dico da sola che sono la solita esagerata.
E vado avanti.
Stoica, inetegerrima, ligia.
Oserei dire eroica, a posteriori.
Nessun sentore di febbre in arrivo, di raffreddore che sta per esplodere, di gola sul punto di incendiarsi.
Ma accade tutto il mattino dopo ancora, quando oltre allo sderenamento generale da palestra mi alzo con tutti gli altri sintomi di cui sopra.
Tutti insieme.
E zero voce.
O solo toni molto bassi.
Pure un filo inquietante, il pensiero di essere proprio io, quella che sta parlando e non magari l’eco lontana di un asino che raglia.
Avvalorato dall’espressione quasi inorridita dell’amato bene che pare chiedersi da chi sia posseduta.
Ecco quindi tutto il malessere del giorno prima.
Altro che melodramma.
Altro che teatralità.
Non ero solo sderenata, in quanto provata dalla palestra, ma pure dall’influenza in arrivo.
Inconsciamente, in pratica, ero sderenata al quadrato.
Che si sappia, una volta tanto.


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Non so se si è capito che a me il rum nei dolci piace proprio da morire...
 E poi: sarà mica un caso che dall'alba del 2015 a oggi io abbia pubblicato solo ricette dolci?
No, ma stavolta non è solo per estrema golosità.. è per il weekend.. ;-)

Ingredienti (per uno stampo da 24 cm di diametro)
4 pere abate non troppo mature
180 gr di farina 00
70 gr di farina di cocco + altri 3 cucchiai
100 gr di zucchero
100 ml di olio di semi
100 ml fra latte e rum (diciamo 70+30)
20 gr di cacao
3 uova
1 bustina di lievito
1 bustina di vanillina
1 pizzico di sale


Procedimento
In una ciotola sbattere le uova con lo zucchero e il sale fino a quando saranno gonfie e spumose.
In un’altra terrina mescolare insieme le farine, il cacao, il lievito e la vanillina e aggiungerli alle uova sbattute. Unire anche l’olio amalgamando bene il tutto. Versare il composto nello stampo oliato e infarinato. Sbucciare le pere, tagliarle a fettine sottili e disporle sulla torta formando un motivo decorativo. Spolverizzare con il cocco rimanente e un cucchiaio di zucchero, quindi infornare in forno già caldo a 180° per circa 30 minuti.

martedì 20 gennaio 2015

(Quasi) come una Geisha - Crostata “Esotica”


È bello prendersi cura di lui.
Dedicargli attenzioni, gentilezze, piccoli gesti amorevoli.
Ha un che di atavico e rassicurante.
Di quella suddivisione di ruoli che appaga la mia incorreggibile indole vintage.
Certo in questo sono abbastanza fortunata: essendo lui (estremamente) preciso e ordinato non mi tocca per esempio girare per casa raccattando calzini...
che non siano prettamente miei.
Spalmarmi sul pavimento gelido per recuperare ciabatte scagliate sotto il letto (e proprio al suo centro esatto) chissà quando chissà come, che non siano propriamente le mie.
Piegare montagne di magliette e maglioni che s'innalzano nel volgere dei giorni e che non appartengano specificamente a me ( ma non è colpa mia se non so mai esattamente cosa mettere e per decidere mi tocca tirare giù - e prima o poi rimettere anche a posto- mezzo armadio e svariati cassetti);
Riposizionare al dritto felpe con i loro cappucci che non siano quelli che io stessa provvedono ad abbandonare, rovesciati, su ogni tipo di superficie, una volta tornata dalla palestra.
Asciugare laghi d' acqua dopo la doccia che non siano stati originati personalmente dalla mia innata abilità.
Spostare giubbotti che non appartengano a me medesima, perennemente a cavalcioni sullo schienale di una sedia, almeno quando cucino per evitate che prendano odori.
Rimettere al loro posto decine di paia di scarpe ( che non siano un 37 scarso) abbandonate per giorni davanti alla porta d'ingresso fino al punto di ostruire il passaggio.
Ma siccome non si può essere perfetti, io, che ordinata lo sono solo a modo mio( perché tutto è relativo e il concetto di l'ordine non fa certo eccezione) in compenso mi sobbarco di altre, faticosissime incombenze tipo: apparecchiare per la cena già alle nove di mattina per evitare che debba farlo lui quando rincasa (appena un treno prima del mio) sempre alle ore canoniche.
Mettergli in cima alla pila dei pigiami quelli più pesanti sperando gli siano di qualche  ispirazione e non vada puntualmente a pescare quelli più leggeri, sul fondo del cassetto, salvo poi lamentarsi del freddo pungente...
Comprargli stock interi del suo bagnoschiuma preferito appagando così la sua insaziabile passione per le scorte e (in infinitesima parte) la mia insana mania per lo shopping.
Certo va detto che tanta dedizione è ripagata, almeno in parte, da altrettanta gentilezza.
Per esempio è lui che stira, ormai da un paio d anni ( mentre io non so nemmeno più come si sguaini un asse all'uopo destinata.. Ma beatissima ignoranza!).
È lui che nel fine settimana mi prepara la colazione e poi il secondo caffe della mattina e poi quello del dopo pranzo, e ancora quello del pomeriggio.
(ma per il resto della settimana' quando lui è in ufficio me lo faccio da sola, eh?!!!)
Sempre lui che aggiusta tutto ciò che (in maniera assolutamente involontaria e sempre per la grazia che mi è propria e con la quale mi muovo nello spazio) sfascio e distruggo.
Lui che si carica casse d’acqua su per le due rampe di scale e va a fare tutto il resto della spesa " grossa" ( saltellando da un supermercato all’altro inseguendo le offerte) imbustando, caricando, scaricando e mettendo pure tutto a posto nell' unico suo pomeriggio della settimana in cui rincasa prima, pur di tenerci liberi il sabato e la domenica.
E che con l occasione fa un salto pure dalla nostra amica fioraia, per portarmi un piccolo pensiero, almeno ogni 15 giorni.
Variando pure sul tema.
Perchè mica si possono "pensare" sempre, unicamente, una rosa rossa e un girasole.
Ma è perché apprezzo e non do per scontato tutto questo, che io ricambio a mia volta con altre premure ancora.
Per esempio preparandogli amorevolmente il pranzo da portarsi per i 3 giorni alla settimana nei quali non è "a vitto".
Pranzi salutistici e molto bilanciati.
Mica improvvisati e raffazzonati.
Mettendoci tutta la premura e l impegno.
Tutto l'amore e la dedizione.
Compreso quello di ricordargli, con dolcezza e un bigliettino trasudante infinita pazienza e inequivocabile tenerezza, di prendere anche il portaprapranzo quando al mattino apre il frigo per afferrare, ancora dormiente, la bottiglia del latte....


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Ero curiosa di provare la crema frangipane, mangiata un’unica volta a Parigi dentro un dolce buonissimo. A frenarmi la presenza di burro e quella sua peculiarità di non essere propriamente una crema leggera. Poi, mentre sfoglio distrattamente un numero molto vecchio di Cucina Moderna, la folgorazione. 

Una foto allettante, l’idea di mettere delle banane al rum sulla superficie di una crostata e l’attenuante concessa al panetto di burro richiesto dalla crema: una frolla all’olio, come naturale compensazione.
Lì la farcitura prevedeva un preparato pronto di crema frangipane, io ho preso la ricetta su giallozafferano, aggiungendoci di mio due cucchiai di rum, per ammorbidirla un po’ visto che era molto densa e perché i liquori nei dolci mi piacciono troppo.

Certo non si può dire che sia un dolcetto leggero da potersene concedere addirittura due fette, ma alla fine nemmeno così tremendamente peccaminoso. 

Buona è buonissima: in particolare la consistenza di quella frolla di farro.
Volendo si può preparare la crema e versarla cruda sul guscio di frolla per cuocere tutto insieme in forno. Io ho preferito fare un passaggio alla volta e cuocerla a parte per poi comporre il dolce solo all’ultimo.


Crostata di farro all’olio con crema frangipane e banane caramellate al rum

Ingredienti (per uno stampo di 24 cm)

Per la frolla
150 gr di farina di farro
100 gr di farina 00
100 gr di zucchero
80 gr di olio extravergine d’oliva delicato
1 limone bio
2 tuorli
5 cucchiai di Martini (o Marsala, o grappa, o altro liquore)
¾ di cucchiaino di lievito

Per la crema frangipane
150 gr di farina di mandorle
120 gr di zucchero
120 gr di burro
2 uova
2 cucchiai di rum

Per la copertura
2 banane verdi
2 cucchiai di zucchero di canna
1 limone
1 bicchierino abbondante di rum


Procedimento
Preparare prima la frolla setacciando in una ciotola le due farine e il lievito. Unire lo zucchero, la scorza di limone grattugiata, le uova, l’olio e il liquore freddo (ho usato il Martini perché era l’unico che avessi in frigo, ma va bene anche il limoncello, per dire) e lavorare velocemente fino a formare un panetto da ricoprire con pellicola e far riposare in frigo una ventina di minuti.


Nel frattempo dedicarsi alla crema: montare con lo sbattitore elettrico il burro con lo zucchero; unire un uovo alla volta aspettando che il primo sia ben amalgamato, quindi unire la farina di mandorle e cuocere su fuoco basso, continuando a mescolare, fino a quando non si sarà rappresa e avrà iniziato a bollire (la consistenza sarà quella di una crema pasticciera molto densa e un po’ più grumosa). Fuori dal fuoco unire i due cucchiai di rum e lasciare raffreddare.


Riprendere il panetto dal frigo e metterlo fra due fogli di carta forno per stenderlo con il matterello (o con un po’ di pazienza stenderlo a mano direttamente nello stampo), sistemarlo nello stampo, rialzandolo di un cm sui bordi, bucherellare con i rebbi di una forchetta, coprire con carta forno e una manciata di legumi secchi e cuocere in forno preriscaldato a 180° per 25 minuti.


Quando la crostata sarà fredda, toglierla dallo stampo e riempirla con la crema.

Tagliare a rondelle le banane e cospargerle di succo di limone. 

Fare sciogliere lo zucchero in una padella, 

aggiungere le banane e il rum e cuocere per un paio di minuti mescolando con delicatezza, 

quindi sistemarle subito, ancora calde, sulla crostata.





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