"A casa non s'arriva mai, ma dove confluiscono vie amiche, il mondo per un istante sembra casa nostra" (H.Hesse)
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martedì 5 aprile 2016

Primati - Disavventure in viaggio 2


Le disavventure in viaggio sono all’ordine del giorno.
Specie quando si viaggia in autonomia e si fa affidamento solo su se stessi.
Alcune (sempre a posteriori) sono divertenti e spassose.
Altre lasciano il segno e fanno mettere una croce definitiva sul posto visitato.
Altre ancora rimangono impresse per assurdità tanto da renderne quasi incredibile il ricordo stesso.
In compenso, tra tutti i viaggi e tutti i voli aerei anche con scali multipli non è (ancora) mai capitato che ci abbiano smarrito i bagagli.
Ma lo mettiamo in conto ogni volta, sapendo che prima o poi succederà.
Ecco perché partiamo con almeno un paio di cambi nello zaino.
Però per esempio per ben due volte siamo stati fermati dalla polizia in Sudafrica, per presunte infrazioni stradali, e una di queste un poliziotto ci ha chiesto una mazzetta per lasciarci andare.
Oppure abbiamo preso in pieno una colonna nel garage dell’autonoleggio proprio mentre riconsegnavamo la macchina dopo aver percorso 4000 km senza farle nemmeno un graffio.
O ancora, abbiamo perso l’aereo da Las Vegas a Los Angeles pur trovandoci in aeroporto tre ore prima, semplicemente perché a un certo punto non abbiamo più badato all’ora né agli annunci vocali e, convinti che mancasse ancora tanto, abbiamo continuato a gironzolare nell’euforia della luna di miele.
Insomma, per quanto la pianificazione sia minuziosa e capillare, non tutto è prevedibile.
Meno che mai i malesseri fisici.
E su questo tema potrei aprire una parentesi infinita.
In viaggio abbiamo di volta in volta avuto a che fare con: infezioni alle dita dei piedi, ascessi dentali, talloniti, febbroni da cavallo, ferite da cadute sugli scogli, raffreddori nemmeno a dirlo, gastroenteriti acute praticamente ogni volta che siamo stati in (nord) Africa, attacchi di rinite allergica e rash cutanei non meglio identificati che ci hanno portati a girare tutta Madrid alla ricerca del corrispettivo spagnolo del Gentalyn Beta (che per la cronaca si chiama Diprogenta).
Quello che però non avevamo mai ancora sperimentato era il ricorso a qualche medico locale.
Almeno fino all’ultimo viaggio in Malesia.
Dove il bisogno di  un medico lo abbiamo avuto non nella capitale, città per lo più moderna e attrezzata. E nemmeno nella successiva tappa di Singapore, metropoli ancora più all’avanguardia.
Nossignori, siamo dovuti andare dal medico (scoprendo che ce n’era uno) nel mezzo della giungla più profonda.
Temendo di vedersi palesare uno stregone o giù di lì.
Mattina della partenza, dopo cinque giorni di morsi di sanguisughe, trekking all’ultimo spasimo, caldo infernale intervallato da acquazzoni improvvisi, mi alzo per prima e mi preparo guardando, tra il sollievo e un pizzico di malinconia, per l’ultima volta la giungla dalla finestra dello chalet.

Poi sveglio l’amato bene.

Lui bofonchia, cincischia, quindi finalmente si alza annunciando però che gli gira tutto.
 E in effetti gli poggio una mano sulla fronte e sento che scotta parecchio.
Ma niente panico: una tachipirina e via, affrontiamo le 3 ore e mezza di lancia sul fiume che ci separano dalla fermata del pullman e le altre 2 ore di autostrada fino a Kuala Lumpur.
Mi giro a chiudere la mia valigia e sento un tonfo alle mie spalle.
Lui  accasciato a terra, gli occhi girati all’indietro, nessun altro segno di vita.
Da lì è stata esclusivamente pura azione. Azzeramento di pensieri, emozioni, ansie e ipotesi. Solo corse disperate.
Da quella per andare a chiamare aiuto, all’inscatolamento rapido di tutto ciò che mancava all’appello (e per fortuna il grosso delle valigie lo avevamo preparato la sera prima), al trasporto di due trolley, due zaini e il malato sottobraccio fino alla reception del parco per sbrigare le formalità di check out prima di recarci, armi e bagagli, “nella clinica al di là del fiume”.

L’addetta alla reception ci augura buona fortuna, mentre un angelo custode con muscoli e gambe veloci ci scorta giù fino al fiume, lungo la ripida scalinata per raggiungerlo. Ci aiuta a salire sulla lancia diretta sulla riva opposta dove, a un paio di chilometri, sorge la fantomatica clinica per raggiungere la quale però ci molla lì, salta su un motorino tutto scassato e torna con un gippone messo non molto meglio ma se non altro funzionante.
Nel frattempo io guido lo zombie dalla piattaforma su cui è attraccata la lancia fin sulla riva attraverso palanche di legno sulle quali già normalmente è complicato mantenere l’equilibrio, figuriamoci in preda a sintomi di svenimento.

Fa per accasciarsi di nuovo, ma per fortuna stavolta non perde i sensi e faccio in tempo a rovesciargli in bocca una bustina di zucchero che ho trafugato dalla stanza prima di andarcene.
Anziani del posto ci chiedono se abbiamo bisogno di aiuto, ringrazio mentre dico no e penso che invece sì, vorrei proprio una bacchetta magica.
O il teletrasporto direttamente in Italia, a casa mia, altro che clinica della giungla.
Tra l’altro sono le 8 e fra un’ora esatta parte la nostra barca per tornare a Kuala Lumpur.
Raggiungiamo un edificio dai muri scrostati e un piazzale antistante di terra battuta dove ci registrano chiedendoci il passaporto e l’equivalente di 10€.
Un ambulatorio rudimentale, con avvisi e manifesti informativi sulle pareti verniciate di rosa e verde acqua. Un paio di sedie a rotelle arrugginite e aste per le flebo altrettanto vecchie.
Ma mai un posto mi è sembrato tanto accogliente e confortante.
Un signore senza denti e una mamma con un bambino stretto al petto da una fascia colorata aspettano il loro turno lanciandoci sguardi bonari, nella lingua universale della solidarietà.
Il tizio che ci ha accompagnati sta sempre con noi, facendoci, all’occorrenza,  anche da traduttore malese-inglese.
Alle 8.30 ci chiama il dottore, un ragazzo giovane dalla pelle ambrata e il sorriso rassicurante.
La stanzetta è microscopica, ma ci sono una scrivania, un lettino e l’aria condizionata a temperature siberiane.
Penso che se mai dovesse venirci un colpo, a entrambi, sarebbe qua dentro.
A lui per la febbre, a me per la paura che pur tenuta a freno scorre vivida sotto la pelle.
Ed entrambi, naturalmente, col colpo di grazia inferto dalle temperature glaciali.
Gli guarda la lingua, le unghie; gli prende le pulsazioni con l’orologio, lo fa sdraiare sul lettino tastandogli la pancia, lo stomaco, lo fa rialzare, scrivendo su un foglietto la terapia.
È molto disidratato, sentenzia.
Tento di dire che ho delle medicine con me e che potrebbe cercare tra quelle se c’è qualcosa che può servire.
Lui, gentile ma fermo, replica che al malato spettano le medicine della clinica.
Con il foglietto in mano ci rechiamo presso un gabbiotto poco distante dove una donna con il velo ci consegna tre bustine contenenti altrettanti blister di medicinali vari nella quantità esatta della cura:
-         due bustine di Sali minerali
-         6 antipiretici
-         6 equivalenti del nostro Buscopan
Senza sprechi, senza ulteriori pagamenti. Tutto compreso nei 10 euro della registrazione iniziale.

L’amato bene nel frattempo si è leggermente ripreso e alle nove meno due minuti, giusto un attimo prima della partenza della lancia, il nostro angelo custode ci riscarica in riva al fiume.

Lo vorrei abbracciare per la gratitudine e mi viene da piangere all’idea di non vederlo mai più.
Il resto del viaggio è dita incrociate (io) e sonno profondo (lui), cullati dalle onde del fiume.

Peripezie varie per salire e scendere dalla barca, prendere il pullman e poi la metro fino all’Hotel di Kuala Lumpur dove arriviamo nel tardo pomeriggio, tirando un sospiro di sollievo.
Mentre lui si butta sul letto sfiancato dalla debolezza e dalla febbre, io ne approfitto per farmi un giro per la città e anche scorta di limoni, biscotti, mele, alimenti compatibili con l’ammalato

 e qualche genere di conforto per me.


Il tutto mentre penso che stavolta io sono stata proprio fortunata a non prendermi niente. E che lo prenderò in giro per il resto della vita, dal momento che è vero che a stare male in viaggio solitamente sono sempre io ma quello che è svenuto come una pera cotta è lui.
La sera mi addormento con questa sottile euforia, grata al destino per averci fatto conoscere, pur nella sfiga, persone speciali come l’angelo custode e poi l’esistenza di realtà commoventi come quella piccola, incredibile clinica nella giungla attrezzata di tutto.
Il mattino dopo l’amato bene pare completamente ristabilito. Ha ripreso a parlare a macchinetta e, cartina alla mano, snocciola tutto il programma della giornata.
Io non mi sento tanto bene. Devo aver digerito male la cena di ieri.
Ma penso con gioia ai biglietti prenotati per salire sulle Petronas Tower.
 E con quelli nella tasca usciamo nel caldo asfissiante della città.
Sbrighiamo le formalità di ingresso, ci mettiamo in fila, consegniamo gli zaini e ci apprestiamo a  salire sulle torri famose in tutto il mondo.
Il malessere cresce sempre di più ma cerco di non badarci.

Facciamo la prima tappa per ammirare lo sky bridge e io ne approfitto per prednere aria dopo il viaggio interminabile in un ascensore stipato all’inverosimile che fa rotolare lo stomaco fino in gola a ogni piano che sale.

Ripartiamo alla volta dell’ ottantaseiesimo piano, fulcro della visita, pezzo forte di tutto il tour.
Mi guardo intorno ma non vedo bagni nei paraggi, allora faccio finta di niente e mi concentro sul panorama, che da quelle altezze è proprio bello.
Finchè l’amato bene non mi dice “guarda! Oscilliamo: fissa un punto fermo, come quel palazzo la sotto e vedi come ci muoviamo!”
Mi basta uno sguardo rapido, uno solo.
Dopodiché, all’ottantaseiesimo piano delle Petronas Tower, in mezzo a gente di tutte le razze, dopo aver invano cercato un bagno, inauguro in grande stile il pavimento di marmo tirato a lucido, candido e immacolato, dando ampio sfogo a tutti, tutti i conati ignorati fino a quel momento.
Nel frattempo l’amato bene ha rintracciato uno della security che sollecito mi pone la domanda più astuta del mondo: signora, ha bisogno di un bagno?
E per fortuna senza aspettare la risposta mi scorta verso una porticina invisibile dietro la quale si cela il bagno più bello del mondo con vetrata immensa sul panorama di Kuala Lumpur e orchidee fresche ai lati del lavandino.
Pensa ai lati positivi, mi sussurra l’amato bene quando torno fuori per riunirmi al gruppo ormai prossimo alla discesa.
Non avresti mai visto quel bellissimo bagno.
E poi non è da tutti vomitare all’ottantaseiesimo piano delle Petronas. Non è da tutti.




giovedì 10 marzo 2016

Nei dintorni di Kuala Lumpur: gita alle Batu Caves


Un luogo affascinante da visitare appena fuori Kuala Lumpur sono le grotte di Batu.
Tredici chilometri a nord della città, sono comodamente raggiungibili in metro e impegnano appena mezza giornata di tempo, dal momento che si trovano esattamente all’uscita della metro.

Il paesaggio, con la foresta tropicale dalla quale si innalzano pinnacoli di roccia calcarea tra i quali spuntano gigantesche statue di divinità indù,

 è quanto di più suggestivo si possa immaginare.
272 gradini per raggiungere il tempio dedicato a Lord Murugan (o Lord Subramaniam), dio indù della guerra la cui gigantesca statua dorata campeggia alla base dell’immensa (e ripidissima) scalinata.

Prima di accingersi alla scalata bisogna controllare di essere vestiti adeguatamente (spalle e gambe coperte) e nel caso indossare una delle “palandrane” distribuite all’ingresso (conviene portarsi dietro un pareo nella borsa).

La quale non farà altro che aumentare fatica e calura, ma le regole sono regole!
Percorrere la scalinata è faticoso ma divertente, allietati come si è dagli innumerevoli macachi che popolano la zona.

Che sono tutt’altro che schivi o spaventati da tutto il flusso di gente, ma si divertono anzi a sottrarre a fedeli o semplici turisti, cibo, 


bevande 

o qualsiasi altra cosa possa attirare la loro attenzione.

Senza la minima speranza di poterli poi recuperare.
A tre quarti della scalinata, e precisamente al gradino 204, si trovano le Dark Caves, il cui ingresso a differenza della grotta principale, è a pagamento.

Il percorso è guidato e lungo all’incirca 2km. Le grotte non sono affatto illuminate, ma prima di partire si viene dotati ciascuno di una torcia e di un elmetto protettivo.
Anche all’interno della grotta fa molto caldo e l’aria è un po’ rarefatta, ma si possono vedere diversi insetti (tra cui gigantesche - e orribili -  scolopendre), qualche pipistrello e i famosi Flow Stones (pietre correnti) , così chiamati perché vi scorre sempre un filo d’acqua.
A un certo punto la guida farà spegnere tutte le torce compresa la sua e si potrà ammirare il muro di nero che è il buio nella parte più profonda della grotta, in un silenzio ovattato, che fa girare la testa.
Una volta fuori si riprende la scalata fino al Subramanian Swamy Temple

che per la verità si rivelerà un po’ deludente.

A parte l’immensità della grotta, alta 100 metri e lunga 80, 

con le pareti adorne di idoli che rappresentano le sei vite di Lord Subramaniam, 


il contesto generale, con lucine colorate a intermittenza,

 galletti che razzolano

e musica pop dagli altoparlanti, appare un po’ squallido e anonimo.

In una sezione del tempio più appartata si trova la statua di Rama, 

divinità ornata di gioielli e sarong di seta, che per vedere più da vicino bisogna però farsi fare un piccolo segno rosso sulla fronte dal personale del tempio.

 Questo darà anche il diritto spirituale di entrare.
Terminato il giro, 

si ridiscendono i 272 scalini
sempre in compagnia dei macachi

Una volta l'anno, solitamente tra gennaio e  febbraio in questo tempio si tiene una delle feste religiose più importanti del calendario indù malese, Thaipusam, che richiama innumerevoli fedeli e turisti.
Dal tempio di Sri Maha Mariammann a Kuala Lumpur, alle prime luci dell'alba parte il carro dorato che porta in processione la statua di Subramanian, seguito da migliaia di fedeli. La strada a piedi fino alle grotte dura circa sette ore. In realtà si tratta di una processione dura e un po' sanguinolenta: come segno di penitenza infatti i fedeli portano vari tipi di pesi, che possono essere brocce da latte variamente intarsiate e fissate alla carne con degli uncini, oppure cornici di legno dotate di spine appuntite, sempre agganciate alla pelle.
Una volta raggiunte le grotte (e saliti tutti gli scalini!), la statua viene deposta nel tempio, si bruciano incensi e canfora e i fedeli si liberano dei loro pesi, versando il latte in offerta.

giovedì 3 marzo 2016

Kuala Lumpur: tutti i mondi possibili in un'unica città



Nomini la capitale della Malesia e pensi alle sue torri simbolo. All’eleganza e alla sinuosità di quelle Petronas Tower che ne sono diventate l’icona riconoscibile in tutto il mondo.

Poi ci metti piede per la prima volta e scopri che quelle torri sono solo uno dei suoi innumerevoli volti.
Il più trascurabile. Assolutamente non il più rappresentativo.
Perché Kuala Lumpur è tutto ciò che di confusionario, variegato, multirazziale e sfaccettato ruota attorno alla calma e alla palcidità delle Petronas Tower e dei suoi curatissimi giardini sottostanti.

Completi di fontane luminose 

che si muovono al ritmo di musica 

in affascinanti spettacoli serali.

Un piccolo nucleo ordinato, elegante e postmoderno che pare sospeso come una bolla protetta in mezzo a tutto il caos circostante.

Che è un ammasso di gente, grattacieli, catapecchie, vicoli, stradine, superstrade, cantieri, sopraelevate che uniscono comodamente un grattacielo all’altro 

e la monorotaia che senti sferragliare puntuale ogni tre minuti

 proprio sopra la testa.

Perfino i muri esterni dei palazzi paiono sovraffollati, per tutti i motori dei condizionatori che li occupano.

Intere pareti di motori.


E anche i mezzi di trasporto più semplici sono concepiti per ospitare il maggio numero di persone…

Il caldo è soffocante, l’umidità, unita allo smog di veicoli tenuti costantemente accesi anche in sosta, rende l’aria irrespirabile.
La commistione di razze è evidente già nel breve percorso che a bordo del treno Klia Express ti porta dall’aeroporto al centro città:

grattacieli sormontati da pagode

moschee

templi indiani

templi buddisti.

Tutti affastellati, uno sopra accanto all’altro, in una convivenza (apparentemente) naturale e pacifica.
Te ne rendi conto anche guardando i cartelli disseminati per i quartieri e sui mezzi di trasporto:
il divieto di alcolici nel quartiere islamico
il divieto rivolto ai cinesi e al loro sport nazionale

i vagoni della metro riservati alle sole donne

La sfilza di divieti generali e onnicomprensivi tra cui quello di baciarsi in pubblico (e in qualche caso anche di tenersi per mano).

Arriviamo a Kuala Lumpur in pieno capodanno cinese, 

quando sono in corso festeggiamenti vari, per le strade, come nei locali, e la città è tutta ammantata di rosso.

Ci incantiamo a guardare lanterne di ogni tipo, 

cascate di fiori finti, 

giardini di plastica, 

alberi di stoffa con luci a led incorporate

 e scimmie, simbolo dell’anno nuovo, sparse un po’ ovunque.

 La sobrietà non è di casa da queste parti e ogni popolo ha il suo bagaglio di colori, usanze, abitudini, ma i festeggiamenti cinesi uniscono tutti indistintamente e si svolgono in ogni quartiere della metropoli.

Assistiamo ripetutamente, ma ogni volta incuriositi e affascinati, alla Danza del Leone 

che si compie in varie parti della città: pickup sgangherati, con 7-8 persone a bordo, sfrecciano per le strade sventolando bandiere e battendo piatti e tamburi. Poi si fermano davanti al locale prescelto (in cui sono stati convocati): quattro di loro indossano i costumi dei due leoni mentre gli altri li seguono battendo il ritmo con i loro rumorosi strumenti.

I leoni entrano, agitano le teste, si alzano sulle  “zampe” posteriori in tutta la loro imponenza, salutano uno per uno i dipendenti dei locali, poi la folla, e se ne vanno dispensando auguri e buoni auspici per il nuovo anno.

Scopriamo presto che è quasi inutile girare per la città cartina alla mano: ogni quartiere fluisce nell’altro come corsi d’acqua che si incontrano mescolandosi e sovrapponendosi.
Partiamo da quello cinese, al cui interno (infatti) si trova uno dei principali templi indù della città, lo Sri Maha Mariamman Temple.
Qui, come denuncia la macchina in sosta (vietata) riccamente addobbata, abbiamo la fortuna di incappare subito in un matrimonio.

Ci togliamo anche noi le scarpe 

ed entriamo giusto in tempo per l’inizio del corteo nuziale.


Bellissimi mandala di sabbia colorata,

 statue votive, 

polveri per segnare la fronte.

Lasciamo gli sposi ai loro riti e festeggiamenti 

e torniamo in strada giusto il tempo di attraversarla per entrare in un tempio buddista, 

dove si consumano incensi 

e offerte votive a base di agrumi.

Quello indiano non è l’unico matrimonio del giorno e nella turistica e affollatissima Jalan Pataling

strada pedonale che costituirebbe l’attrattiva principale di Chinatown ma che in realtà è solo un agglomerato di bancarelle che vendono falsi, due sposi occidentali si ritagliano lo spazio per un servizio fotografico sicuramente originale e fuori dal comune.

Oltre a loro, stravaganti personaggi popolano la via 

insieme a indovini che per pochi spicci leggono il futuro nelle mani e rivenditori dei cibi più disparati.

Proseguiamo lungo il quartiere indiano, ricco di tessuti, sarong e monili di ogni tipo, 

fino a raggiungere il centro storico coloniale della città, che ha il suo fulcro in Merdeka Square ( piazza Indipendenza)

enorme distesa erbosa al centro della quale svetta l’asta della bandiera malese.
Unico tratto verde, forse, in una città in cui è evidente che l’urbanizzazione folle e le stravaganze architettoniche hanno fatto tabula rasa di ogni singola porzione di foresta tropicale.
La quale sorge però tutto attorno: dall’aereo infatti si ammirano infinite distese di palme e tratti di verde a perdita d’occhio.
Salmastro, dolciastro: camminando per le strade di Kuala Lumpur sono gli odori che guidano attraendo o suscitando repulsione, soprattutto per il cibo.
Facciamo una capatina al Central Market Pasar Seni, senza però trovare il coraggio di assaggiare il Durian, frutto vietato nella maggior parte degli alberghi per via del suo odore, pare, di…carne in via di decomposizione, ma dal sapore eccelso (purché si sappia sceglierlo bene, al giusto grado di maturazione!). Ecco, decidiamo di fidarci sulla parola senza il bisogno di testarlo personalmente.
Ci buttiamo invece all’assaggio dei Pow

panini dolci cotti al vapore con ripieno di pollo, maiale o crema di fagioli rossi;

di zuppe di polpettine di pesce,

noodle asciutti

o in brodo

ma soprattutto le meravigliose Sesame balls, palle di riso gelatinoso ripiene di fagioli rossi, loto o pasta di noccioline, ricoperte di sesamo e fritte. 



Eleggiamo come nostro posto preferito in cui mangiare, una specie di magazzino sottoscala stracolmo di gente del posto e di chioschetti indipendenti che vendono ognuno le proprie specialità.

 L’aspetto è poco invitante e ai limiti del claustrofobico, degno del peggior bar di Caracas, con soffitti bassi ed enormi tubi di aspirazione che incombono sulla testa, ma il cibo è ottimo e l’atmosfera, priva di un singolo occidentale al di fuori di noi due, ci fa sentire parte integrante della città. 

Arriviamo a chiedere ad altri clienti il nome di un piatto particolare che ci attira moltissimo per poterlo ordinare a nostra volta.

Incappiamo in persone che non parlano inglese ma che, molto premurosamente, ci mostrano lo scontrino col nome del piatto e ci scortano fino al chiosco in questione, cosicché anche noi riusciamo ad assaggiare il Loh Sin Fan, di cui non troviamo la traduzione da nessuna parte ma che, tutti contenti, mangiamo per noodle di riso piuttosto grandi conditi con salsa di fagioli rossi e altre verdure.
Scegliamo invece un ristorante con raviolatori in vetrina, 

per assaggiare dim sum e soprattutto, la versione dolce di questi, ripieni, ancora una volta, degli squisiti fagioli rossi.

Siccome alloggiamo nel cuore del Golden Triangle, esattamente sulla via commerciale Bukit Bintang non ci viene difficile girare per gli innumerevoli centri commerciali della zona che ben presto però, data la loro somiglianza e il ripetersi degli stessi marchi ci vengono a noia. Tra l’altro si pone la questione, affatto trascurabile, degli enormi sbalzi termici tra l’esterno, in cui si è attanagliati dall’umidità e i locali chiusi, metropolitana compresa, in cui campeggiano temperature siberiane. Eppure: siamo gli unici a indossare una felpa!
Molto meglio un giro per le strade, e i negozi, più caratteristici


La visita di Kuala Lumpur non può prescindere, a mio avviso, dall’ascesa alle Petronas Tower.

Per cercare di ristabilire un ordine, guardare la città da una diversa prospettiva, allontanandosi per un attimo dal suo caos che confonde e disorienta.

Eleganti, imponenti, mettono quasi soggezione a guardarle dal basso, senza riuscire a vederne la fine.
E sono ancora più emozionanti dall’interno, passeggiando lungo lo sky bridge, fino poi a  raggiungere il piano più alto 

da cui guardare giù, 

accarezzandone con lo sguardo il profilo sinuoso di vetro e acciaio.

Si viene divisi in gruppi di 30 persone, la visita è guidata e dura 40 minuti in tutto. Bisogna lasciare gli zaini all’ingresso e passare i controlli al metal detector.

 Fondamentale acquistare i biglietti prima: sul loro sito, con carta di credito oppure direttamente al bancone all’arrivo in città, per la prima data utile. Quelli per la giornata infatti vanno esauriti già alle nove del mattino.
Non posso definire Kuala Lumpur una bella città. Me la aspettavo diversa, molto moderna e proiettata al futuro.

 L’ho trovata confusionaria, piuttosto arretrata e con molta strada ancora da fare, nell’aspetto e nella mentalità. Come una città che guarda al futuro ma senza progettualità,

 senza pianificazione, un po’ come i suoi palazzi, i grattacieli, i luoghi di culto e le strade buttate lì a casaccio, accatastati gli uni sugli altri.

Qualche suggerimento

Din Tai Fung, ristorante con varie sedi in città, tra cui quella all’interno del centro commerciale Pavillon KL.

Lot 10 Hutong, al piano seminterrato del Lot10 Mall, ambulanti cinesi e chioschi tradizionali alcuni in attività dagli anni 30. Se non ci si formalizza per il contesto, i piatti sono ottimi e tutti cucinati espressamente.



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