Non di sole tragedie è costellato questo periodo.
Fra traslochi e sbarazzi, guai da arginare ed emergenze da
affrontare, infatti è nato, dopo lunga gestazione, un progetto dolce e
confortante.
Quello cioè di portare la lettura in palestra, creando, con
la disponibilità e la complicità del suo gestore, una piccola ma fornita
biblioteca da cui attingere liberamente.
Fatta per la maggior parte di libri miei.
I presupposti c’erano tutti.
La noia assoluta delle lezioni di ginnastica posturale era
stata magicamente alleviata (oltre che da una musica di sottofondo più
impegnata e studiata degli inizi) dalla richiesta dell’insegnante di portare
ciascuno un libro da casa per usarlo…come supporto per la testa negli esercizi
a terra.
Certo l’amico Lev avrebbe avuto a che ridire vedendo la sua
Anna Karenina usata come cuscino.
Ma era un inizio.
Perché sbirciando titoli e trame, fra matasse di capelli
abbandonate sopra, daje e daje ci si
trovava a parlarne (dei libri, non delle chiome).
A scambiarceli perfino.
Così l’ho buttata lì quasi per gioco: perché non creiamo un piccolo angolo lettura qui in palestra? –
chiedevo poco convinta io stessa al suo gestore. E intanto pensavo a tutta la
mole dei libri che mi trovavo
contestualmente a gestire mentre sbaraccavo casa dei miei (prima ancora della
mia).
Forse potevo coniugare le due cose e rendere l’inevitabile distacco
da un certo numero di tomi meno traumatico e più fruttuoso, trasformandolo in
un progetto di continuità.
La palestra è piccola, gli spazi sono ridotti, la proposta
appariva irrealizzabile perfino a me che l’avevo formulata. Invece non solo ho
trovato terreno fertile nel suo proprietario, ma anche collaborazione fattiva
nel realizzarla.
Ma mica così, tanto per farla.
Oltre che terreno fertile infatti ho trovato pure una
persona precisa e fracassattributi pignola, almeno quanto me.
Che un conto è incontrarsi sul terreno sospeso del tatami,
al di fuori del tempo e dello spazio, scalzi e affannati, ognuno compreso nel
proprio ruolo: lui istruttore che impartisce ordini, io sciatta scansafatiche
che manco partita, già si stravacca sul tappetino interrompendo la serie di
addominali o la sequela di squat; un altro conto è trovarsi, fuori dalla sala,
ricomposti e con scarpe ai piedi, a parlare di libri.
Le prospettive cambiano.
Beh insomma, dove li
mettiamo questi libri? Come li sistemiamo?
Che sarebbe stato troppo facile partire, andare all’Ikea e
tornarsene con una libreria Billy sottobraccio. Il tizio prende un foglio e una
penna, butta giù lo schizzo di uno scaffale raffinato e ingegnoso: tre mensole
sostenute da una corda fissata al soffitto.
Una struttura aerea, leggera ed elegante, da far invidia
alle riviste di architettura.
E dove le troviamo di questa
forma e grandezza? – domando ingenua
Le faccio io!- mi
risponde come fosse la cosa più normale del mondo.
Mi pare troppo bello. Non solo ha accolto la mia proposta
senza batter ciglio, ma s’è messo pure a elaborare un progetto architettonico.
E a vestire i panni di Mastro Geppetto per realizzarlo.
Un’unica condizione mi si pone: quella di occuparmi io dei
libri. Portarli, definire parametri che regolino lo scambio, gestire la futura
biblioteca.
Capirai lo sforzo. Non chiedo di meglio.
E quasi stento a crederci.
Per quanto mi riguarda, mica prendo i libri a casaccio, li
butto in uno scatolone per sbarazzarmene e li porto qua.
Da giugno in poi parte la selezione rigidissima dei titoli
degni di essere ospitati nella futura biblioteca.
Li vaglio uno per uno, cercando di metterci dentro generi
vari e titoli allettanti.
Grandi classici e best-seller usciti da poco.
Non deve essere un parcheggio di volumi, ma uno stimolo per
la mente e per lo spirito.
Poi compro on line un timbro per renderli riconoscibili,
perché negli anni, qualcuno che se li ritroverà fra le mani possa sapere che
hanno avuto questa vita avventurosa, fuori dalla libreria di casa.
Da alcuni, che ho amato leggere, mi separo con molta fatica,
determinata però a volerli liberare, vestire di nuova vita.
Poi le vacanze, poi gli impegni personali, poi il dubbio che
possa aver cambiato idea, in questo mondo che fluttua e prende le cose, come la parola data, alla leggera.
Un messaggio il giorno prima di ferragosto: ti ricordi, sì, del progetto biblioteca?
Mi rassicura che sì, se lo ricorda perfettamente: non ha cambiato idea e non lo abbandona.
Gongolo di felicità.
Gongolo di felicità.
Ed è così che ai primi di ottobre, coniugando i rispettivi
sforzi, vede finalmente la luce, nell’unica palestra del paese, la piccola e
bellissima biblioteca di ex libri miei.
Cui poi se ne sono aggiunti altri, liberi di essere presi,
letti, scambiati, restituiti o adottati per sempre.
Perché non di solo sudore è fatta una sessione di palestra.
E perché qualche volta i libri vivono anche di vita propria.
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Questa torta è parecchio strana. Ma del resto lo erano pure
i biscotti di ceci, il plumcake di gelato, i biscotti di maionese, la torta difiori di zucca e il cake di wafer. A me le rape proprio non piacciono, né bianche né rosse, ma l’idea di farci una
torta mi incuriosiva tanto. E quando Marco Bianchi ha pubblicato la ricetta
sulla sua pagina FB, non potevo certo
esimermi dal provarla. L’aspetto è invitante perché sembra una torta al
cioccolato, morbida e umida. Dell’odore non si può dire altrettanto: si sente
il cocco ma si sente anche “la terra” della rapa. Insomma, è una torta vegana,
mica un tiramisù, ma ha il vantaggio di non risultare gommosa, come molti dolci
di questo tipo. Mi è piaciuta, solo ci
metterei più zucchero (almeno 30 grammi in più perché quello da lui indicato è
proprio poco) e sicuramente il quantitativo esatto di farina di cocco che forse
aiuta a eliminare l’odore della rapa.
Ingredienti (per
uno stampo da 24 cm)
400 gr di rapa rossa lessata (quella del supermercato venduta
sottovuoto)
360 gr di farina di tipo 2 (io di farro)
320 gr di latte di soia (io di riso)
100 gr di zucchero di canna
120 gr di farina di cocco (io solo 40 perché l’avevo finita)
120 gr di olio di mais
1 cucchiaio di cacao amaro
1 bustina di lievito
Procedimento
Preriscaldare il forno a 180°. Mescolare gli ingredienti
secchi. Frullare la barbabietola insieme all’olio e al latte. Quando si è
ottenuto un composto omogeneo unirlo agli ingredienti secchi e versare tutto in
uno stampo oliato e infarinato.
Cuocere per circa 35-40 minuti facendo la prova stecchino.