"A casa non s'arriva mai, ma dove confluiscono vie amiche, il mondo per un istante sembra casa nostra" (H.Hesse)

mercoledì 25 febbraio 2015

L’inconfessabile – Millefoglie veloce al pistacchio


Eccoci.
Tra scatoloni, pile di quotidiani, rotoli di plastica “a pallini” e scotch da imballaggio.
Che non è uguale al nastro adesivo, largo e marrone.
L’ho scoperto andando a comprare l’ennesimo rotolo e restando mezz’ora davanti allo scaffale del negozio cinese, in contemplazione di tutta la varietà.
Marrone scuro/bianco/beige/trasparente, non sono colori da scegliere solo su ispirazione (estetica) del momento (come inizialmente ho fatto io), ma vanno proprio in base all’uso che se ne deve fare.
E l’ho scoperto all’ennesimo cartone che, tirandolo su, mi si riapriva nella parte inferiore rilasciando tutto il suo contenuto, delicato o meno.
O quando tiravo una striscia di scoth da una parte all’altra e scoprivo che mi aveva seguita fedelmente scollandosi all’istante.
Ecco: serve quello trasparente, proprio lo scotch da imballaggio, il più resistente.
E poi sono scaffali vuoti, ripiani deserti, pareti sconfinate.
Scatoloni, pieni e vuoti, accatastati in ogni dove

Che uno dice: quante cose mai potranno esserci in 45 metri quadri di casa?
Considerando che al momento (e sono trascorsi una decina di giorni dall’inizio dello smantellamento), devono ancora essere affrontati: piatti/bicchieri/pentole/padelle posate e poi vestiti/scarpe/biancheria per la casa/borse...e che la cinquantina di scatoloni finora transitata da queste parti è servita per libri (e poi libri…e ancora libri), soprammobili, quadri, quadretti e fotografie, gingilli vari, più tutta la collezione di tazze da ogni viaggio (la quale da sola ha richiesto una mezza giornata di lavoro fra: tira giù, lava, riasciuga, imballa per bene, disponi gommapiuma intorno e trasporta in angolo sicuro della casa dei suoceri affinché non abbia a subire botte e scossoni), va da sé che il lavoro sporco resta ancora tutto da fare.
Il bello deve venire insomma.
Per quanto mi riguarda mi sono lasciata il meglio.
Questioni spinose per le quali mi tocca chiamare a raccolta tutto il coraggio e soprattutto aspettare che l’amato bene non sia in casa, perché certe questioni vanno affrontate in solitudine, lontani da sguardi indiscreti.
E sono:
-smontare tutta la scarpiera-portabigiotteria già sapendo che non farò quella cernita che avevo promesso tutta fiera in uno slancio di ottimismo, ma mi porterò dietro pure orecchini/collane/braccialetti rotti o spaiati.
-esaminare tutto il settore stampi/teglie/sparabiscotti/formine/sbattitori elettrici/mandoline/setacci/vassoi e alzatine, cosciente che continuerà a servirmi tutto, anche quello che non ho mai nemmeno aperto e perfino ciò del cui modo di utilizzo non ho nemmeno idea.
-sottoporre a cernita tutte le 30-40 borse fra tracolle/pochette/zaini/secchielli/shopper/accumulate negli anni (certa che nemmeno gli esemplari dei tempi del liceo riuscirò a far fuori)
-mettere le mani nel cassetto della cancelleria (e in tutti i cesti/cestini/raccoglitori/portapenne/astucci e scatoline di latta del Mulino Bianco di quando avevo 12 anni, sparsi per la scrivania) traboccante di post-it/block-notes/moleskine/biglietti d’auguri/appunti /numeri del dottore/massime e aforismi/adesivi dei miei piccoli amici/strisce di fumetti e opuscoli vari, disseminati in ogni dove che così come si trovano, verranno solo rimossi dalle pareti della libreria, del cassetto, della scrivania e portati via per poter essere poi riappiccicati, da qualche parte, nella casa nuova.
Ecco perché certe cose vanno fatte da sole: che come glielo spieghi a lui che fra tutti i cartoni che a mano a mano si carica giù per le scale e va a smistare tra casa dei miei e casa dei suoi in attesa di incollarseli nuovamente uno a uno per portarli a casa nuova quando finalmente ne avremo le chiavi, ce ne sono 3 pieni solo di vecchie riviste di cucina?
E una scatola traboccante solo di ritagli di giornale su argomenti vari (libri/recensioni di film/suggerimenti di viaggio/luoghi da vedere) e un’altra piena di gomme da cancellare dalle mille forme e mozziconi di matita di quando andavo a scuola, ma pure di quando lavoravo con fogli, libri e, appunto, tante matite?
Certe cose non si confessano. Si fanno e basta.
Il mio contributo poi è come al solito fondamentale e imprescindibile.
Amore, tra sabato e domenica acceleriamo un po’ e cerchiamo di imballare più roba possibile, eh?” mi incoraggia lui tutto gaio, cercando di dissimulare un filo d’ansia che, nonostante l’aria sempre calma e rassicurante, è pure la sua.
Che durante la settimana non abbiamo mai tempo, ci incontriamo di rado e solo a tarda sera sfatti, e un po’ d’affanno, con una scadenza precisa davanti, ci prende eccome.
Sì sì certo!” – lo rassicuro io credendoci pure.
Ma ecco che  incarto e inscatolo solo il sabato mattina e precisamente dalle 9:45, ora in cui esco dal bagno (con comodo, così come mi sono alzata) fino a  circa le 14: in cui ci sediamo a mangiare, e tolto pure il tempo di mettere su la pila dell’acqua, apparecchiare e condire l’insalata.
Dopodichè: febbre/letto/aerosol, in ordine sparso e alternato.
Io.
Lui impacchetta.
Smista
Porta scatoloni giù per le scale.
Li carica in macchina
Li riporta su dai suoi (che almeno hanno l’ascensore)
Sollevando e riposando ogni scatolone un numero imprecisato di volte.
Quindi ora, in mezzo al delirio di scatoloni, carta, scotch, cose da imballare e cose che devono rimanere fino all’ultimo (perennemente a rischio di essere confuse e scambiate), ora c’è pure la macchinetta dell’aerosol con tutti i suoi aggeggi.
Le scatole di medicine e quelle della soluzione fisiologica.
Il termometro e le scorte di fazzoletti.
E guardiamo i lati positivi però:
mezza casa è già smontata
all’altra mezza si penserà.
E per finire, qualche numero al volo:

Totale scatoloni fino ad ora

Miei: 28.
Suoi: 3.
(+ canne da pesca e cassetta degli attrezzi, però).

Totale cose buttate (con eroico coraggio)

Mie:  3
(-1 stampo da plumcake in disuso da 4 almeno anni perché arrugginito
-1 mollettone di quando avevo i capelli lunghi (circa 3 anni fa)
-1 copriasse da stiro mezzo bruciato e senza più l’elastico, tenuto però prudentemente da parte)

Sue: un centinaio, considerando solo l’intera collezione di musicassette dei maggiori cantautori italiani (di cui andava molto fiero, ma che adesso “che ce faccio?”)

…posso mai dirgli che ho imballato perfino 3 esemplari di rose (secche ovviamente) che mi aveva regalato nel lontano 2010 non ricordo nemmeno più in che occasione?
O il biglietto della metro di Pechino e la bustina di zucchero dell’agriturismo in Umbria?
Riservatezza, gente: o il divorzio è dietro l’angolo!

@@@@@@@

Confessargli certe cose no, ma preparargli un dolcetto a scappar via è il minimo. Di quelli che proprio puoi fare in una manciata di minuti, a parte cuocere la crema. Adottando tutte le scorciatoie possibili, a cominciare dalla pasta sfoglia pronta, ma proprio pronta: nel senso, anche già cotta, nemmeno lo sforzo di srotolarla, cospargerla di zucchero, ritagliarla e metterla al forno!
Perché chi l’ha detto che non si possa fare un millefoglie pure nel bel mezzo di un trasloco?
Io no di certo.



 Ingredienti 
3 basi di pasta sfoglia pronta (300gr)
0,6 lt di latte
65 gr di zucchero + 1 altro cucchiaio
3 tuorli
45 gr di farina
1 bustina di vanillina
120 ml di panna da montare

Inoltre:
1 confezione di biscotti di pasta sfoglia ripieni alla crema
Abbondante zucchero a velo
100 gr di gocce di cioccolato extrafondente
50 gr di pistacchi


Procedimento
Preparate la crema calcolando che dovrà riposare in frigo per almeno due ore.
Mettete il latte a scaldare con l’aroma di vaniglia. Sbattete i tuorli con lo zucchero e quando saranno un po’ spumosi aggiungetevi progressivamente la farina setacciata, quindi il latte caldo a filo continuando a mescolare.
Fate cuocere la crema su fuoco lento mescolando continuamente finché non si addensa e per altri 5 minuti a partire dal momento in cui comincia a fare le bolle.
Lasciatela quindi raffreddare ricordandovi giusto di mescolare ogni tanto per far sì che non si formi la patina.
Una volta fredda riponetela in frigorifero per il tempo necessario.
Al momento di assemblare il dolce montate la panna (ben fredda) con 1 cucchiaio di zucchero (e meno che non sia già zuccherata) e poi aggiungetela alla crema amalgamando bene.
Scegliete un vassoio e sporcatelo con una cucchiaiata di crema prima di sistemarci sopra il primo rettangolo di pasta sfoglia: servirà a tenere ferma la torta che altrimenti scivolerà da tutte le parti rischiando di rompersi o peggio di cadere! (a me ovviamente si è rotto giusto l’ultimo quadrato, ma poi lo zucchero a velo copre tutte le magagne!)
Ricoprite con uno strato generoso di crema (avendo cura di lasciarvene da parte un paio di cucchiai per “incollare” i biscotti alla fine), cospargete con abbondanti gocce di cioccolato, quindi mettete il secondo quadrato, altra crema e i pistacchi tritati grossolanamente.

Terminate con l’ultimo rettangolo e spolverizzate abbondantemente di zucchero a velo.

 Mettete un puntino di crema su ogni biscotto e incollatelo facendo una cornice al millefoglie, allontanatevi un attimo per ammirare il capolavoro (ed eventualmente utilizzare anche quel residuo di crema facendo una cupoletta sulla sommità del dolce e ricoprendola di gocce di cioccolato) e riponete in frigo.

venerdì 20 febbraio 2015

A spasso fra mostri di pietra, borghi abbandonati e città sospese nell’aria


La fuga di san Valentino, organizzata dall’amato bene, è stata tutta all’insegna della praticità per vicinanza, durata e spostamenti, anche se nel volgere di un giorno e mezzo abbiamo scoperto luoghi, a due passi da casa, di cui quasi ignoravamo l’esistenza.
Passeggiare nel Sacro bosco di Bomarzo è costruirsi un racconto facendo vivere e interagire le gigantesche statue in peperino che lo popolano.
Un’ora di passeggiata, in un percorso obbligato tra saliscendi, sentieri nascosti e terra battuta in cui si fanno incontri dei più disparati, tra cascate,

 fontane e orche fameliche che spuntano dalle acque.

Case pendenti (in cui camminare è una divertente sfida all’equilibrio!)

Tartarughe giganti 

ed elefanti con tutto il baldacchino che spuntano fra gli alberi.

Ma anche orchi con le fauci spalancate, in cui far capolino (perché la curiosità è tanta: che ci sarà nella bocca di un orco?)

Donne addormentate,

altre che giocano

altre ancora semplicemente sedute a riposare sotto un albero prima di riprendere il lavoro nei campi.

Gli ingredienti di una favola ci sono tutti: il bosco cinquecentesco voluto da Pierfrancesco Orsini (il cui fantasma, pare si aggiri ancora fra i suoi alberi..), sembra una sorta di Gardaland del passato, con case della paura, giardini labirintici e piscine animate da personaggi acquatici.
Ma è anche la favola di un bosco incantato, i cui personaggi, imprigionati in un sonno secolare, sembrano doversi risvegliare da un momento all’altro…
Siccome il brivido oltre a stupire mette fame, ci facciamo consigliare, dalla proprietaria del B&B a Soriano nel Cimino, un ristorante in cui sciogliere tutta la tensione della mattinata.
E lei, forse perché è san Valentino, forse perché è romantica di suo, ci consiglia un ristorante sul cocuzzolo dei Monti Cimini, al limitare di un magnifico bosco di faggi secolari, in uno scenario che è quello di un’altra favola.

Il locale si chiama, non per niente, “La faggeta” e mentre a valle fa caldo e splende il sole, quassù il bosco è tutto ammantato di neve e regala un’atmosfera ancora più suggestiva.

Una baita con vetrate immense da cui guardare la neve stando al caldo, 

assaporando piatti tipici e corroboranti come la zuppa di ceci e castagne, piatto forte dello chef, e tutto ciò che abbia a che fare con il prodotto principe del posto, ovvero Sua Maestà il fungo porcino.

Nemmeno la voglia di perdere tempo a fare foto decenti.
E la chicca finale è un magistrale tiramisù fatto in casa e una torta ai frutti di bosco da animare anche le statue di Bomarzo.
Decidiamo di smaltire parte delle innumerevoli calorie gironzolando per il borgo di Chia e arrampicandoci verso la zona alta.

Un borgo minuscolo in cui convivono case abitate e vecchi ruderi senza soluzione di continuità.

Un ristorante alla base più grande di tutto il paesino messo insieme e un piccolo parco pubblico, sulla sommità del paese, che confina con un giardino privato e che più che altro appare come una continuazione di questo, un piccolo angolo messo a  disposizione di tutti, con giochi di tutti.

Perfino la piazza dedicata a Giordano Bruno appare come il giardino privato di una casa qualsiasi.
Strano e affascinante nella sua particolarità.
La serata trascorre nella ricerca vana di un locale in cui mangiare, ma due piccoli dettagli impediscono di trovare un solo tavolo libero a Viterbo e provincia: è sabato ed è san Vallentino e noi non abbiamo prenotato niente.
Finiamo in uno sperduto agriturismo verso le dieci di sera, dove è in corso un’animatissima e decisamente folcloristica festa gipsy per il battesimo di un pupetto.
Nonostante musiche parossisitiche sparate nelle orecchie a getto continuo e la difficoltà a comunicare da un lato all’altro del tavolo, ci gustiamo comunque una pizza senza infamia né lode e osserviamo, curiosi e divertiti, la festa in corso.
L’atmosfera ovattata del rifugio per la notte ci sembrerà ancora più bella.

Il mattino dopo, una pantagruelica colazione preparata dalla signora del B&B inaugura la giornata nel migliore dei modi: crostata con marmellata di visciole, torta di ricotta, strudel di mele e biscotti, tutto rigorosamente fatto in casa, confetture comprese.

E casomai non ci fossimo saziati a sufficienza, la squisita padrona di casa ci prepara un vassoio da asporto contenente due fette di ciascun dolce.
Meraviglioso congedo il cui ricordo porterò sempre nel cuore.
Civita di Bagnoregio ci aspetta con tutte le sue scale e la salita ripidissima per raggiungerla.

L’ingresso non è gratuito: si paga 1,50€ a persona (oltre al costo del parcheggio per la macchina che va lasciata, per ovvie ragioni, alla base).
Il fatto che sia una “città che muore” basta forse a giustificare che si debba pagare per visitarla, ma la cosa ci lascia ugualmente perplessi.
Certamente la meraviglia che riserva è incommensurabile.

Viene naturale pensare come qui Bonaventura abbia coltivato il suo Itinerarium mentis in Deum.

Il colpo d’occhio è dall’inizio del ponte che la unisce alla terraferma, quasi fosse un’isola in mezzo al mare.

E del resto il sottilissimo e lunghissimo viadotto in cemento è l’unica via di accesso al borgo.
Uno sperone di tufo la sua fragilissima base d’appoggio.

Arroccato, appollaiato, aggrappato disperatamente alla roccia che frana e che a mano a mano, nel corso dei secoli, fra terremoti ed erosione delle acque, lo ha portato giù con sé.
Intorno, un paesaggio fatto di creste di argilla, come in un canyon con gole e picchi, che pure nella sua immobilità, pare in procinto di sormontare e inghiottire tutto il resto.

L’interno del borgo è un profluvio di deliziose case restaurate, piccoli locali in cui mangiare e tanti (troppi) negozietti di souvenir, 

però per fortuna tutti assolutamente integrati nel paesaggio, mai stridenti con la sua quiete.

Nonostante la denominazione di “città che muore” e il destino geologico di questo borgo, proprio nulla qui ha l’aspetto di morte e di abbandono.

Tutto è vivo, pulsante, magnifico.
A cominciare dalla circostante Valle dei Calanchi, che pure incombe sull’abitato come una perpetua minaccia.

La via del ritorno è placida e lentissima.
Un’ultima sosta mangereccia (nemmeno a dirlo), questa volta a Montefiascone, nell’unico ristorante che troviamo aperto e che però ci delizia con al sua calda e rustica atmosfera e soprattutto dei magistrali tortellacci di grano saraceno con ripieno di capriolo e salsa di noci.
La pioggia ci impedisce purtroppo di fare un giro per il paese che pure dovrebbe essere molto carino.
E sempre lentamente ci rimettiamo in viaggio, questa volta senza soste intermedie.
Un giorno e mezzo: vissuto con tale intensità da sembrare una settimana, per un viaggio dietro l’angolo bello come dall’altro capo del mondo.


Qualche indirizzo:
B&B Il Boschetto di castagni, via Papa Giovanni XXIII, 26 – Soriano nel Cimino (VT)
Ristorante Baita La Faggeta, Loc. Faggeta – Soriano nel Cimino
Ristorante Borgo Antico, Corso Cavour, 20 Montefiascone (VT)


martedì 17 febbraio 2015

Sdolcinatezze - Torta di radicchio, finocchi e speck


È andata così, un paio di settimane prima.
Nel modo più sdolcinato e romantico possibile.
Come è nel nostro stile, del resto.
Mio di alcuni precipui momenti, soprattutto.
E soprattutto quando la mente (e pure ogni fibra del corpo e ogni singolo nervo) è tutta proiettata verso l'imminente trasloco, la roba da impacchettare, gli scatoloni da spostare da una casa all'altra; 
poi ad altri due appuntamenti, di una certa rilevanza, che naturalmente vanno a capitare, a ciccio, giusto una manciata di giorni prima e uno il giorno stesso del rogito. 
Tanto per non farsi mancare niente.
Insomma: ce n'è di che litigare e sbranarsi a ogni sillaba pronunciata.
Un foglio abbandonato sul divano, l’aria dell’amato bene davvero poco circospetta e l’attenzione tutta rivolta, piuttosto, ai titoli del telegiornale.
Io che, appena rincasata e ancora col piumino addosso, mi avvicino già sul piede di guerra (ho pulito stamattina, ho tolto di mezzo tutti gli impicci possibili e immaginabili: te pare che questo me deve lascià  fogli sparsi dappertutto?).
I sensi in allerta, gli artigli tesi, pronti a sferrare l’attacco.
che è sta roba?” domando con la grazia innata che (in alcuni momenti) mi è propria, tirandolo giù dalla nuvoletta grigio-fumo sulla quale si è rintanato a cogitare sulle notizie del giorno facendo a malapena caso al mio rientro.
Mi guarda, si illumina di colpo, realizza che in casa non è più solo, che sono tornata!
E me lo dice così:
amore, ma è il regalo per san valentino!!!
Caspita.
Siamo a fine gennaio, ma lo so che lui ama fare le cose per tempo.
Organizzarsi.
Programmare.
Ricaccio dentro l’insulto e leggo al volo magiche parole sparse, quelle capaci di dare una svolta anche alla serata più difficile, allo scazzo più intenso, alle lacrime già in procinto di rotolare giù:
 booking/prenotazione confermata/colazione inclusa.
Vedo l’immagine di una stanza, di un boschetto, di un cuoricino disegnato.
Dove non importa, l’importante è che si vada.
Avresti sempre voluto vedere il parco dei mostri di Bomarzo, bene: ci andiamo a s.Valentino e dormiamo pure lì!...cioè: non dentro il bosco, in un b&b nei dintorni e ne approfittiamo per andare a vedere pure Civita di Bagnoregio. Contenta??”.
E io che ero pronta ad azzannarlo.
Che, chiamati già a raccolta i coreuti, stavo per afferrare quel foglio, appallottolarlo e rinfacciargli che aveva osato abbandonarlo così, sul divano.
Cuore mio.
Ma a quel punto si pone la domanda su come ricambiare.
Che si vabbè i baci e i cuori di cioccolato, ma un po’ di sostanza ci vuole.
Non fosse altro che per scontare l’affronto di un insulto anche solo formulato mentalmente.
Come minimo devo stupirlo anche io.
Farmi venire in mente un’idea altrettanto romantica.
Escogitare un pensiero parimenti amorevole.
Una cenetta a lume di candela?
Preparargli il suo dolce preferito?
Reperirgli per l’ennesima volta badilate di marmellate e confetture particolari di cui è molto ghiotto ma che ormai ha assaggiato in tutte le versioni e di tutti i gusti compresa quella di mirtillo con succo d’agave?
(no, perchè poi tocca traslocà pure quelle)
Cosa non gli ho già regalato nei 23 san valentino pregressi?
Forse una spedizione su Marte, perché per il resto ha avuto in sorte ogni oggetto possibile, utile o simbolico, tangibile o fruibile mettendosi in viaggio.
Ed è così che pensa che ti ripensa mi viene in mente il regalo giusto, quello che –caso strano- ancora non gli ho mai fatto.
Proprio mai.
Una cosa che avrebbe sempre voluto comprarsi ma non ha mai osato farlo, con la motivazione (ineccepibile) che “tanto che ce devo fa?” (salvo poi rammaricarsi di non averlo perché in certe occasioni la legge lo prevede…).
Un regalo che più romantico non esiste.
Più sdolcinato non sarebbe possibile.
Più simbolico e significativo non si potrebbe immaginare.
….
Le catene da neve per la macchina!
Che come si chiede ancora un mio amico scrittore, dopo avergliene parlato: “Quali proiezioni dell’inconscio spingono una donna a regalare catene?
…Ti lego a me?
…Non scivolare?
No ma de che: l’esaurimento di idee, piuttosto!
Semplicemente.
Altro che poesia.
E poi la facilità con cui si reperiscono potendo contare su un fratello carrozziere.
“leggi la sequenza numerica sui copertoni e mandamela via sms, che te le ordino dal nostro fornitore”.
Manco lo sforzo di cercarle, andarle a comprare, trascinarsele dietro (che pesano pure).
Ah, e già che c’ero, anche senza lo sforzo di fare il pacchetto: “mamma mi raccomando, quando arrivano incartamele per bene che io non ho tempo, poi passo a prendermele. E mettici un fiocco, non te lo scordare!!”.
Perché il mio romanticismo, a volte, non ha limiti.
Perché se fa la neve a Roma, e diramano l’obbligo di avere le catene a bordo, oplà: noi siamo a posto!
Inutile dire che ha apprezzato come se a me avesse regalato l’ultimo modello di Trilogy.
 Che del resto: Bomarzo a febbraio/catene…c’era pure una qualche attinenza, no?

@@@@@@


A volte il radicchio è davvero amarognolo. Con i finocchi, si stempera. Con lo speck e la gratinatura di parmigiano diventa un sogno a occhi aperti…e la torta perfetta da mangiarsi sul divano davanti alla partita o a Sanremo appena lasciato alle spalle…


Ingredienti (per uno stampo a cerniera da 24 cm di diametro)

Per la base
150 gr di farina integrale
100 gr di semola di grano duro
50 gr di farina di farro
130 ml di vino bianco
70 ml di olio extravergine d’oliva
1 cucchiaino raso di sale

Per il ripieno
1 pallotta di radicchio
3 finocchi
100 gr di speck
2 scalogni
2 cucchiai di parmigiano
2 cucchiai di pangrattato
Sale
Pepe
Olio extravergine d’oliva

Procedimento
Tagliare il radicchio a metà, quindi a striscioline e raccoglierlo in una ciotola piena d’acqua. Sciacquarlo e scolarlo bene. Mondare i finocchi e tagliare anche quelli a fettine non troppo spesse.
Scaldare dell’olio insieme agli scalogni affettati in una larga padella, quindi unire le verdure e far saltare qualche minuto, aggiustando di sale e pepe. Da ultimo unire anche lo speck tagliato a striscioline, mescolare bene e lasciare raffreddare.
Preparare la base riunendo le farine e il sale in una ciotola. Aggiungere gradualmente il vino e l’olio e impastare fino a ottenere un composto liscio ed elastico. Disporlo in uno stampo a cerniera oliato e stenderlo con le dita rialzandolo bene sui bordi. Spolverizzare la base di pangrattato e riempirla con le verdure cotte in precedenza. Terminare con una spolverata di parmigiano e cuocere in forno a 180° per circa 35-40 minuti, secondo il forno.




mercoledì 11 febbraio 2015

Anche gli atleti mangiano - Ravioli di pasta brisée con ricotta e cioccolato


Che in palestra si andasse per tutta una serie di altre faccende che esulano dalla mera questione fisica è una scoperta proprio dei primi tempi.
Di quando, riluttante e recalcitrante, ormai quasi due anni fa, mi sono votata (immolandomi) alla causa e ho iniziato ad andarci.
All’inizio non è stato slancio gioioso e puro afflato lirico: perlopiù cercavo disperatamente appigli e pretesti che mi dessero coraggio ma al contempo fossero meno brutali e più diplomatici di un semplice calcio nel didietro di me stessa a me medesima.
Ma pure cercando e ricercando, un’unica motivazione ha finito per prevalere su tanti cincischiamenti:
Ce devi annà.
(C’è poco da fa’).
Poi sì, pure la schiena dolorante.
Il miraggio di una bella postura (esteticamente gradevole oltre che salutare).
La prospettiva magari di sciogliere quei materassini di grasso nei punti più sbagliati (...hai visto mai?).
Il fatto di prendere due piccioni con una fava e pensare che tutta la fatica degli addominali (alti/bassi/laterali/metaforici e tutti quelli che non sapevo nemmeno esistessero…) costantemente allenati per l’ottimo motivo che “sono loro a sorreggere e proteggere la schiena”, in qualche modo venissero utili pure in vista della prova costume.
E poi certo, a mano a mano che superavo il disappunto e lottavo con la sveglia/la tuta/i leggins/i calzini bucati (te pare che non tiri su proprio quelli dal cassetto?), quell’impegno trisettimanale (che così, all’improvviso mi impediva di starmene felicemente in pigiama e calzettoni antiscivolo  davanti al computer fino a metà mattina scrivendo e leggendo) mi regalava anche lo scambio bellissimo e costruttivo con le mie compagnucce di corso.
Senza paletti mentali e senza età: vere donne tutte d’un pezzo che col freddo o con la pioggia, col sole o con il vento, puntuali la mattina alle 9 erano (e sono ancora) lì in tenuta ginnica a far lavorare i muscoli.
Non come me che ogni scusa sarebbe buona.
Guarda che bel sole: in alternativa potrei uscire a fare una lunga camminata, magari fino al mare!
Uhhh piove: noooo e ‘ndo vado in palestra?
Senti che tramontana: e se nel tragitto a piedi da qui a lì mi casca un ramo in testa?
E siccome l’equilibrio è per sua natura molto precario io scuse di questo genere per non andare in palestra continuo a sfornarne sempre di nuove e fantasiose.
Convincenti e insidiose, che a smontarle fatico più che se prendessi e andassi senza tante storie.
Allora ho deciso di affrontare la questione diversamente: cercare i lati fortemente positivi e i pretesti incrollabili per volerci andare in palestra.
Per non vedere l’ora di farlo.
Per entrare in fibrillazione anche cinque minuti prima che suoni la sveglia nei giorni dispari della settimana e mi ordini di scapicollarmi giù dal letto per andare a faticare ricordi dolcemente che quel giorno devo dedicarmi a me stessa coccolando (se fa pe dì) i miei muscoli.
Per un periodo mi sono inventata il bookcrossing: fantasticavo di andare lì e, prima di buttarmi a  capofitto nell’allenamento, sollazzare anche la mente passando un’oretta buona a scambiare libri, leggere bandelle, sbirciare copertine. Un’anticamera invogliante e rassicurante, tanto che immaginavo pure come potesse essere uno scaffale all’uopo dedicato e di sistemarci all’interno tutti i libri che mi ero scelta mentalmente il giorno prima, manco la palestra fosse di mia proprietà.
Ma la fantasia non basta.
Serviva uno scossone forte.
Uno sprone incontestabile.
Tipo parlare di cucina.
Di torte.
Di dolci.
Che basta entrare poco più in confidenza per calare la maschera e scoprire gli altarini.
Frasi buttate lì, che colgo al volo, drizzando le antenne come non mai.
Io sono golosa da morire
Ah sì?
Allora posso confessarti che anche io, se lasciata libera davanti a una  tavoletta di cioccolato fondente sono capace di finirmela diligentemente pezzo per pezzo dal primo all’ultimo quadratino.
Massima di rimbalzo:
Embè te credo. Co mezza che ce fai??
(amo la filosofia di queste donne!)
E via, con scenari sempre più ampi:
domenica avevo voglia di dolce, ma non avevo niente in casa
e io, ingenua:
ah brava, allora te ne sei preparato uno?
No ma de che? seee così poi dovevo pure aspettà che se freddava!! nooo, so' scesa e me so' comprata ee pastarelle!
Wow, che donna!
Grande personalità: decisa, massiccia, tosta, ecco perchè a pelle già mi stava così simpatica.
D'ora in poi sarà il mio faro, lo spirito guida, la voce della mia coscienza e pure (soprattutto) quella dell'incoscienza.
Ma le sorprese non sono finite, altre voci si sono aggiunte al chiacchiericcio:
Ma a proposito di cannoli siciliani, sai dove li fanno proprio buoni m’hanno detto?
E giù a spiegare strade e tracciare mappe.
Programmare tomtom mentali e prendere bene nota, ‘nsia mai me sbajo.
E arriva all’improvviso, quella voce apparentemente preposta solo a impartire ordini, imporre disciplina e pronunciare poche, mirate e indigeste parole:
“….e ancora su, stringete i glutei, rientrate la pancia, tenete la postura... piuttosto schiattate ma non mollate…”.
È proprio la sua, di quell’essere mitologico che nella mia mente si nutre solo di radici, chiare d’uovo e poco altro.
Colui che nel bilanciamento di zuccheri/proteine e carboidrati bada bene che dei primi e degli ultimi non vi siano che rare tracce.
Che i dolci non li guarda nemmeno da lontano.
E nemmeno col binocolo.
Questo è nella mia mente un highlander istruttore di palestra.
E invece (pare di) no, è proprio lui che sento chiedere attento, vigile e interessato:
“Scusa dov’è, dov’è di preciso che farebbero sti cannoli?”
Mi crolla un mito, me ne nasce subito un altro.
Riformulo la mia mente (poco) ginnica e (per niente) atletica.
Contemplo rapita e ammirata il nuovo personaggio delle mie strampalate storie:
L’atleta goloso.
Rivedo le mie teorie strambe e un po’ assurde.
Ma che te pensavi: che gli atleti nun magnano?
 E mentre continuo a rimuginare, una delle mie mature compagne di corso mi mette una mano sulla spalla con fare rassicurante:
“allora venerdì ti porto la ricetta di quella torta al cioccolato di cui abbiamo parlato!”
Eccolo un ottimo motivo per venire in palestra!
Altro che cavoli.
La schiena, la forma fisica, l’allenamento, la salute….
Se se.
Mo ho capito tutto!

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Questi sono ravioli di recupero, ecco perchè le dosi sono proprio minime, bastano giusto per due. E non è per tenersi in forma! Il fatto è che nascono dagli avanzi delle tartellette perStagioniAMO!
Un po’ di ricotta, qualche ritaglio di pasta brisèe…e che fai butti via tutto o metti in frigo a languire?
La ricotta avrebbe finito per camminare da sola…i ravioli no: sono spariti in un attimo.
Perciò non abbiate paura: abbondante pure.
Raddoppiate, triplicate le dosi…tanto poi c'è sempre la palestra!!!


Ingredienti (per 10 ravioli)
Mezzo rotolo di pasta brisée pronta (circa 100 gr)
80 gr di ricotta
2 cucchiaini di zucchero semolato
1 cucchiaino di cacao amaro in polvere
1 pizzico generoso di cannella

Procedimento
In una ciotola amalgamare la ricotta con il cacao, lo zucchero e la cannella. Ricavare dalla pasta tanti dischetti con l’aiuto di uno stampino (riammassare i ritagli e stenderli tra due fogli di carta forno con l’aiuto di un matterello) , quindi farcirli con un cucchiaino scarso di composto (attenzione a non riempire troppo o si apriranno in cottura). Piegare a metà e schiacciare i bordi con i rebbi di una forchetta. Disporre i ravioli su una teglia ricoperta di carta forno e cuocere in forno preriscaldato a 180° per circa 20 minuti o fino a quando saranno ben dorati.


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