"A casa non s'arriva mai, ma dove confluiscono vie amiche, il mondo per un istante sembra casa nostra" (H.Hesse)

lunedì 30 maggio 2011

Primo fine settimana al mare e post (incredibilmente) telegrafico con ricettina veloce e auguri al mio fratellino – Vermicelli alla finta carbonara

A parte una brevissima parentesi pomeridiana sabato per presenziare al battesimo della pupetta (bellissima e simpatica da morire) di un’amica, per il resto ci siamo finalmente concessi, complice il primo fine settimana di bel tempo, delle rilassanti e ristoratrici passeggiate fino al mare e ritorno passando per tutto il tragitto lungo la riva con i piedi rigorosamente in ammollo….Ahhhhhhhhh massima soddisfazione e primi, timidissimi coloriti vagamente più sani del pallore invernale…
Siccome però ora è lunedì, la commozione per la ripresa forzata del lavoro impone silenzio e compostezza in attesa del prossimo fine settimana e festeggiando, stasera,  i 33 anni dell’adorato fratellino (Auguri Arie!!!!).

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Questa pasta l’ho mangiata in un ristorante (di cuoco napoletano) nemmeno un mese fa. E ne ero rimasta sinceramente affascinata tanto da aver voglia di riprovarla subito. Poi, come spesso accade, l’ho archiviata tra le cose da fare in futuro…fino a quando non me la sono ritrovata tra le pagine del numero di giugno di Cucina moderna, firmata niente di meno che da Simone Rugiati.
Al ristorante avevo dovuto chiedere lumi sulla “papaccella” che figurava tra i suoi ingredienti base, sconfessando in quel frangente tutta la mia immensa ignoranza in materia, per apprendere poi che tratta(va)si di peperone napoletano, insignito addirittura di marchio slow food. Ecco perché finta: dell’uovo della carbonara tradizionale nemmeno l’ombra ma della cremina gialla, densa e avvolgente, tutto il gusto e l’aspetto e ancora di più! E per una come me che l’uovo non lo può vedere nemmeno in cartolina…a meno che non sia ben amalgamato e cotto e intriso di altri umori, e quindi invisibile, questa di poter mangiare una carbonara, seppur finta, è stata una scoperta davvero affascinante e irresistibile…
Avendola però preparata con un qualsiasi peperone giallo non meglio identificato, a posteriori direi che no, per questa pasta occorre precisamente la papaccella napoletana di presidio slow food. Che ha un gusto più delicato, meno invadente, assolutamente adatto ad accompagnare silenziosamente ma con un certo cipiglio, i suoi ben più saporiti colleghi guanciale e pecorino con cui sembra andare incredibilmente a braccetto senza timore di venir sovrastata.
Il risultato sarà sorprendente: alla vista (perché la cremina sembrerà proprio quella dell’uovo della carbonara fatta bene) e al palato (perché il peperone si avvertirà senza sovrastare né contraddire il gusto deciso del guanciale e del pecorino). Insomma: trionfo pieno sotto tutti gli aspetti!
E senza uovo, senza olio, solo il grasso del guanciale….sotto voce e senza troppa pubblicità oserei dire che è pure una ricetta light!!

Ingredienti x 2 persone
-250 gr di vermicelli o bucatini
-120 gr di guanciale
-1 spicchio d’aglio
-2 peperoni gialli carnosi (preferibilmente di varietà papaccella napoletana) medi (o uno grande)
-3-4 cucchiai di pecorino romano
-1 bustina di zafferano (barbatrucco per rendere la cremina di un ancor più credibile color giallo uovo…)
-sale
-pepe
ASSOLUTAMENTE NO OLIO!

Procedimento
Arrostite i peperoni sulla bistecchiera (o nel forno in funzione grill per 15 minuti) girandoli spesso, quindi chiudeteli in un sacchetto di plastica o di carta per qualche minuto, spellateli togliendo picciolo e semi e tagliateli a dadini. Nel frattempo mettete sul fuoco una pentola con abbondante acqua cui avrete aggiunto il sale e la bustina di zafferano. Tagliate il guanciale a listerelle sottili e mettetelo a rosolare in una padella antiaderente con lo spicchio d’aglio intero girandolo spesso finché non diventa trasparente e bello croccante. Scolatelo su carta assorbente e mettetelo via al caldo. Nella stessa padella fate saltare per qualche minuto la dadolata di peperoni, aggiungendo sale, pepe e un mestolino di acqua calda della pasta. Versate tutto in un recipiente alto, aggiungete 1 cucchiaio di pecorino e frullate con il minipimer. Nel frattempo cuocete i vermicelli molto al dente, scolateli sommariamente mettendo via un paio di mestoli d’acqua di cottura e saltateli in padella insieme alla crema ed eventualmente a un mestolo o due di acqua (il condimento dovrà risultare abbastanza fluido e cremoso). Spegnete il fuoco, mantecate con il restante pecorino, impiattate e servite con una spolverata di pecorino ancora, un pizzico di pepe e le goduriosissime striscioline di guanciale croccante.
 
 

mercoledì 25 maggio 2011

Un conforto, un pezzetto di casa, uno spunto di meditazione…tutto in una tazzina – Crostata al caffè

A parte il lieve timore di esordire con una sorta di spot pubblicitario, la realtà è proprio questa: per noi il caffé è “sapore di casa”. Non ne beviamo moltissimi: le classiche 3-4 tazzine al giorno…5 proprio a voler strafare e quando magari la giornata si protrae oltremodo, mentre scopriamo che ci manca moltissimo quando siamo all’estero, lontani da casa. Lungi dall’incarnare i tipi che ovunque si trovino pretenderebbero di mangiare spaghetti (al dente) e di sorseggiare il vero espresso italiano, le cose tendono a complicarsi quando magari si resta fuori casa un po’ più a lungo e, a parte il costo assurdo di una tazzina di caffé in certe città europee (..che almeno ne valesse la pena..), la sua mancanza a un certo punto si fa sentire in modo molto pressante.
Ed è esattamente per ovviare a tale mancanza che da qualche anno a questa parte, oltre all’adattatore universale di corrente ci siamo dotati anche di un fornelletto elettrico e di una piccola moka da portare sempre con noi. Piazzandola un po’ dove capita…preferibilmente su un pianale del bagno
o in bilico su una qualsiasi altra superficie
Ma in mancanza d’altro, anche al centro di un cestino di alluminio rovesciato
 Quello, in ogni parte di mondo, rappresenta il nostro angolino di beatitudine, una pausa rassicurante e confortante che ci scalda il cuore e lo spirito. Perché è vero che in viaggio si sta bene, ma è pur sempre una condizione sospesa, quella in cui la vita si prende una pausa e assume colori e toni diversi, reali ma effimeri, transitori e dai contorni estremamente labili. Non è sempre tutto rose e fiori, specialmente quando si viaggia zaino in spalla da un posto all’altro. Ci sono attimi di perplessità, qualche rogna e piccole decisioni da prendere a ogni passo, un po’ come dice il viaggiatore della massima qua sotto….
E così,  tornare in camera, caricare la moka, inserire lo spinotto del fornelletto, attendere per un tempo variabile (che può sfiorare la mezzora con il voltaggio americano....) che il caffé venga su e cominci a spandere il suo aroma inconfondibile, assume i caratteri di una bella abitudine che aiuta a ricentrarsi, a ritrovare il senso e la consapevolezza piena di quello che vedi e di quello che fai.
Dalla Tanzania alla Polinesia francese, dalla costa Est a quella Ovest degli Stati Uniti, da Las Vegas a Chicago, e ancora su e giù per l’Europa e perfino nella magnifica e italianissima isola di Favignana (perché a quel punto del tuo angolino di conforto mobile non puoi proprio più fare a meno...) abbiamo sorseggiato il nostro caffé (preparandone appositamente di più per portarcelo dietro in una bottiglina rimediata) in ogni luogo e a ogni latitudine:



Ma a parte il primo caffé della mattina o i viaggi in luoghi desolati in cui si rivelava indispensabile portarselo dietro, non abbiamo disdegnato l’assaggio di espressi vari in ogni luogo deputato, sotto ogni forma e con svariati accompagnamenti.
 Dai bicchieroni di carta del bar di Chicago
Alla curiosa tazzina di alluminio della caffetteria di Harlem, con l’aggiunta di un profumatissimo Cinnamon roll

 Dallo “sciacquettone” però finemente decorato, con tanto di bocciolo di rosa, di Bruges
All’espresso con annesso cioccolatino di Chez Clément a Parigi
Dal caffé con pasticcino al burro in riva al mare polinesiano
All’articolato caffé viennese ricco di ogni possibile dettaglio aggiuntivo…
Allo stesso modo di quello di Amsterdam
Perché per quel brevissimo attimo di piacere del caffé ognuno ha i suoi gusti e le sue piccole manie: da chi ama trangugiarlo di corsa, in piedi davanti al bancone del bar e con un piede già in strada a chi considera assolutamente inderogabile la regola “delle 3 C” (comodo, caldo e in compagnia).
C’è chi lo vuole macchiato, corretto, ristretto, chi lo preferisce al vetro, skakerato, o solo un po’ più lungo.
E chi invece lo ama a tal punto da immortalarne artisticamente i rivoli in una forma, sorprendentemente realistica, di alabastro….


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Per questa ricetta ho tratto ispirazione dal volume Tè e caffè dei libri di cucina del Corriere della sera. Per la frolla ho utilizzato l’ormai super collaudata ricetta con l’olio al posto del burro, in più, di mia iniziativa, ho aggiunto alla crema un bicchierino di marsala e un cucchiaio di fecola (quest'ultima perché mi sembrava un po’ troppo morbida). L’odore è inebriante, sicuramente è riservata esclusivamente agli amanti del caffè! Sarebbe interessante provarla con la frolla al cacao, idea che terrò presente per le prossime volte. Il libro suggeriva di decorarla con ciuffetti di panna montata, io mi sono limitata a cospargerla di gocce di cioccolato fondente…
Ingredienti
500 g di pasta frolla della ricetta che si preferisce
200 ml di caffé (circa 5 tazzine)
300 ml di latte intero (anche se io ho usato quello ad alta digeribilità….)
4 tuorli
45 g di farina 00
1 cucchiaio di fecola
1 bicchierino di marsala

Procedimento
Sbattete bene le uova con lo zucchero, aggiungete la farina e la fecola setacciate, quindi unite a filo il latte caldo mescolato al caffé e al marsala. Cuocete la crema a fuoco basso per qualche minuto finché non si sarà addensata, continuando a mescolare con un cucchiaio di legno.
Lasciate raffreddare la crema, mescolando ogni tanto per non far formare la pellicola. Nel frattempo preparate la frolla, stendetela nella teglia lasciandone da parte un po’ per le decorazioni. Riempitela con la crema e cuocete in forno già caldo a 180° per circa 20-25 minuti o comunque non appena sarà dorata in superficie.



Con questa ricetta partecipo al bellissimo contest della Massaia Canterina


venerdì 20 maggio 2011

Firenze e una contaminazione gastronomica davvero provvidenziale – Tonno di coniglio

A pensarci bene, di quel famoso pranzo , a salvarsi dal calderone malefico di insicurezza-scarsa autostima-giornata proprio storta-lasciateme stà, in cui ero inesorabilmente caduta in quel festoso frangente, non sono stati solo gli ormai noti cestini di fave, ma anche questa cosa sfiziosetta qua (vi chiedo lo sforzo di fidarvi sulla parola, considerando la qualità della foto...l'unica strappata ai mille impegni e alle stratosferiche paturnie del momento..):
Un antipasto curioso, assaggiato durante una brevissima trasferta a Firenze, salvo poi scoprire che con la Toscana non ha proprio niente a che vedere, trattandosi, come ho appreso poi, di un antipasto tipico addirittura del Monferrato.
Per la gita avevamo preso a pretesto San Valentino (perché ogni scusa è buona, non certo per singolare attaccamento alla festa in sé..) ed eravamo partiti già con l’intenzione di deviare, allungando un po’, per vedere la magnifica Abbazia di san Galgano, quella senza tetto e senza pavimento....
Con la leggendaria e suggestiva spada in questione

Arrivati poi nel bellissimo capoluogo toscano, indovinate un po’? Ma certo: pioveva!!!!
E non ha smesso nemmeno il giorno successivo
pur regalandoci scorci ugualmente indimenticabili
compreso il piccione appollaiato su una testa certamente fuori dal comune...
In barba al tempo e per nulla minati nell’appetito, girovaghiamo per qualche ristorante in cerca del “nostro”, dove tra cena e pranzo del giorno successivo ci rifacciamo ampiamente della beffa climatica tra antipasti tipici
Taglieri di formaggi
Pici al sugo di lepre
Per concludere in bellezza con un paradisiaco zuccottino, fortunatamente in formato mignon, che ci svela generoso tutto il suo golosissimo contenuto non appena affondiamo la forchetta....
Sta di fatto che, pur fra tutto questo ben di Dio, forse perché tutte cose ormai mangiate (sempre con lo stesso piacere) in più di un’occasione, questo tonno di coniglio invece,
sapore nuovissimo e assai stuzzicante, mi è talmente piaciuto che una volta tornata a casa, sono corsa a chiederne conto agli amici del Giornale.
E il grande Peppe, avvocato siciliano con una grande passione per la cucina, ne ha prontamente pubblicato la ricetta, assolutamente chiarissima, che potrete trovare qua nella versione originale.
Ma che per comodità riporto anche qua sotto, con accanto le mie (piccole) varianti in rosso.
Consiglio di servirlo su fette di pane, avendo però l’accortezza di scolarlo un po’ e di usare un pane adatto alle bruschette, altrimenti si intriderà oltremodo di olio e risulterà stomachevole, mentre invece il boccone più prelibato dovrà essere proprio quella bruschetta così saporita….

Ingredienti per 8 persone

10 litro e acqua
200 gr di sale
1 coniglio intero da circa 2 Kg (1,2 Kg da disossato)
1 cipolla media
1 carota grossa
4 coste di sedano
1 mazzetto di erbe aromatiche (alloro, timo(non l'ho messo), rosmarino, salvia, prezzemolo)
2-3 chiodi di garofano
(ne ho messi una manciata, e ne ho aggiunti anche successivamente nell'olio)
10 foglie di salvia
10 di spicchi di aglio medi
(io ne ho usati soltanto 2)
½ litro di olio extravergine di oliva
Pepe nero in grani


Procedimento
Dal vostro macellaio di fiducia (oppure da vostro marito, come nel mio caso) fatevi eviscerare il coniglio e togliete via anche la testa. Una volta a casa lavatelo bene ed asciugatelo con un canovaccio da cucina.
Poi, per prima cosa mondate la cipolla e, lasciandola intera steccatela coi chiodi di garofano. Spellate la carota, pulite bene il sedano e legate gli aromi a mazzetto. Fatto questo mettete il tutto in una pentola di grandi dimensioni, aggiungete anche qualche grano di pepe nero. Mettete in pentola anche il coniglio intero e coprite bene con 10 litri d'acqua cui aggiungerete 200 gr di sale grosso. È di assoluta importanza rispettare questa proporzione da cui dipenderanno la morbidezza e la giusta sapidità del coniglio ( che dovrà assomigliare al tonno...). Portate a cottura finché il coniglio non sarà diventato tenero.
A cottura ultimata spegnete e lasciate intiepidire il coniglio nel suo stesso brodo. Poi, prima che sia completamente freddo, estraetelo e spolpatelo con cura facendo in modo di ottenere dei pezzetti di carne abbastanza regolari.
A questo punto sbucciate l’aglio, lavate la salvia ed asciugatela bene tamponandola con un canovaccio da cucina pulito. Poi in una ciotola o in una boccia con l’imboccatura larga versate un po' di olio, quindi fate uno strato di pezzetti di carne di coniglio, distribuiteci sopra qualche foglia di salvia e qualche spicchio di aglio sbucciato e qualche grano di pepe, ma lasciato intero, versate altro olio e continuate così fino a quando non avrete esaurito tutti gli ingredienti.
Fate però attenzione a che il coniglio sia ben impregnato d’olio, senza però esservi immerso. Coprite con una pellicola o con il coperchio se avete utilizzato una boccia e lasciate riposare in frigo per almeno 24 ore prima di utilizzarlo, ma tenete presente che dopo 48 ore è ancora più buono e tenero.


Sempre peppe dice che: "si chiama in questo modo poiché la carne, stando nell'olio per qualche giorno a macerare, diventa tenera come il tonno".

Un po' laborioso, anche per il fatto di doverlo preparare con almeno un giorno di anticipo, ma ne vale assolutamente la pena!

lunedì 16 maggio 2011

Un fiore da uno “zeppo”: le rose di mamma e altre creazioni – Crostata di mandorle

Io il pollice verde proprio non so cosa sia: se le piante non sono abbastanza resistenti di loro e i bulbi non hanno sufficiente iniziativa personale da venir fuori semplicemente in virtù della loro natura, come quelli famosi riportati dall’Olanda in un impeto (a posteriori ben riposto) di ottimismo, è matematicamente certo che, affidata alle mie cure è capace di morire perfino una pianta grassa! E difatti è esattamente quello che è successo con l’amata Zamioculcas, regalo consolatorio di mamma, dopo la fine ingloriosa che avevo fatto fare al suo predecessore ciclamino, che pur essendo noto come pianta estremamente resistente, è miseramente stramazzato dopo nemmeno due mesi di convivenza con la sottoscritta.
Perfino il basilico appena piantato pare aver già iniziato a cacciare delle minacciose foglioline giallastre…
Fanno eccezione a questa regola fissa del mio balcone solo la menta e l’origano. La prima, piantata lo scorso anno e, dopo una crescita abnorme e inaspettata, abbandonata nell’angolo più remoto del balcone per disperazione, ha continuato a proliferare incurante di sole, rovesci o raffiche di vento e perfino della neve di quest’inverno!
Il secondo era cresciuto anche lui a livelli tali da minacciare seriamente l’invasione del balcone sottostante

e una volta raccolto e messo a seccare penzoloni dai fili della biancheria al termine dell’estate scorsa, è finito sbriciolato in una moltitudine di barattolini dispensati, pure quelli per sfinimento, a destra e a manca, fra amici e parenti. Ecco, mia madre invece è esattamente il contrario. Il suo di pollice è quanto di più verde si possa immaginare: qualsiasi piantina, germoglio, talea, “cacchietto” che rimedia e interra, quello cresce, prolifera e si moltiplica per poi diramarsi orgogliosamente nei giardini di tutto il vicinato e anche del resto d’Italia nel caso di amiche residenti altrove.
Ed è talmente brava da riuscire a far spuntare delle bellissime rose semplicemente dallo “zeppo” finale di quelle che porta a mia nonna al cimitero e che deve necessariamente ritagliare per fare stare nel vaso. Anziché buttare via l’avanzo lei lo incarta diligentemente, se lo infila nella borsa e una volta a casa lo conficca con nonchalanche nel primo vaso che si trova sulla strada dal cancello al portone di casa. Così facendo, al ritmo di un paio di zeppi a settimana ha creato vasi di rose dai colori più svariati degni della più fornita delle serre!
Al mio ennesimo, frustrantissimo tentativo di emulare tale prodigio, m’è arrivato questo vaso già bell’e pronto (“tiè: che tanto è inutile!”), dove da un singolo bastoncino non è spuntata solo una rosa, ma 4!!! E nemmeno banalmente tinte di rosso o di rosa, nossignori! Troppo facile. Sfumate! Di arancione…su di un candido e  meraviglioso color crema, tanto per rosicare ancor di più….
Inutile dire che mi sono arresa definitivamente, mi godo le mie rose pronte e mi concentro per cercare di non mandare in malora pure queste!!!

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Anche la crostata è opera della mia supermamma. Lei non fa molti dolci, ma è esperta di due preparazioni sulle quali è imbattibile: il tiramisù e questa crostata per l’appunto la cui ricetta le fu data molto anni fa da una signora romagnola. Poi certo, le castagnole fritte a carnevale e qualche ciambellone allo yogurt durante l’inverno. Questa crostata però è davvero particolare e assolutamente impedibile per gli amanti delle mandorle. Mi spiace non avere una foto che ritragga la fetta, ma spero siano sufficientemente convincenti quelle del dolce intero.
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Ingredienti
300 gr. Farina
150 gr. zucchero
150 gr. burro
3 tuorli
1 albume (che serve a rendere la pasta frolla più secca dal momento che già la copertura sprigiona umidità)
la buccia grattugiata di 1 limone
1 pizzico di sale

PER LA COPERTURA:
200 gr. mandorle spellate e tritate
100 gr. zucchero
2 albumi
1 bustina di vanillina
 
Procedimento
Disporre la farina con lo zucchero a fontana e porre al centro il burro a pezzetti, i 3 torli, l'abume, la buccia del limone e il sale. Amalgamare bene tutti gli ingredienti cercando di non lavorare il composto troppo a lungo e lasciare riposare al fresco per una trentina di minuti. Nel frattempo immergere le mandorle in acqua bollente per pochi minuti, spellarle e tritarle; quindi, una volta raffreddate,unire i 2 albumi rimasti, lo zucchero e la vanillina, mescolando bene. Rivestire il fondo di una tortiera con la pasta frolla disponendo un bordo più alto tutto intorno, quindi ricoprirlo con il composto di mandorle e cuocere per 40 minuti in forno a 180°. Servire fredda (il giorno successivo è ancora più buona!)
 
Con questa ricetta partecipo al contest di Angela:

mercoledì 11 maggio 2011

Storie di giornate storte, ciambelle mal riuscite e variazioni sul tema – Cestini di pasta brisèe con crema di fave e pecorino

Non tutte le ciambelle riescono col buco.
Questo detto è tanto più veritiero quanto più lo si riferisce, letteralmente, a mere questioni mangerecce per le quali, del resto, in effetti sarebbe nato…
Ebbene la mia ciambella senza buco è stata, metaforicamente parlando, il pranzo per la festa della mamma!
Sarà che eravamo appena tornati dal viaggio e quindi, almeno mentalmente, ancora in fase di totale relax, sarà che mentre preparavo, una molesta vocina interiore mi diceva che la stessa composizione del menu aveva un che di evidentemente stonato, sta di fatto che, a mio avviso, nell’ordine:
-l’antipasto era troppo untuoso
-la pasta era (orrore!!) scotta
-la carne troppo fredda
-le verdure eccessivamente speziate
Che poi il mio umore già di suo non fosse propriamente alle stelle non cambia di fatto le conclusioni, irrimediabilmente tratte (da me medesima) e puntualmente esposte nella lista di cui sopra.
E a nulla valevano le rassicurazioni degli astanti con esortazioni annesse a non drammatizzare, che in fondo, forse, ero io a vedere tutto nero…………
In ogni caso, gli unici a salvarsi da auto-stroncature inappellabili e inconsolabili sono stati questi saporitissimi e assai gustosi cestini, perfino rivalutati con convinzione crescente nei giorni successivi!
Ma siccome sono un’eterna incontentabile aggiungo che per ovviare alla visione poco allettante di una crema verdognola pigrissimamente spiattellata alla meno peggio sul cestello croccante in questione, direi che la prossima volta, con un pizzico di buonumore e impegno in più, mi riserverei di infilarla in un sac a poche e darle una forma vezzosamente più gradevole…che non guasta!

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A parte il tempo che richiedono per la realizzazione (che non è poi così tanto) servire un antipasto o un contorno all’interno di un cestino commestibile… è una cosa molto carina e anche gradita!

Per realizzare i suddetti ho usato due ricette: la mia, ormai collaudatissima, di pasta brisèe all’olio ma senza uova né lievito e quella di una mia amica che prevede invece anche questi ultimi due ingredienti. I cestini della mia amica sono venuti più gialli e più gonfi, i miei più leggeri e sottili e anche più croccanti. Dipende dai gusti, io preferisco i miei, ma soprattutto per una questione di leggerezza e di fissazioni mie in tal senso…
Di seguito metto gli ingredienti per realizzare entrambe le versioni, poi a ognuno la scelta! Per dare la forma ho utilizzato uno stampo per muffins spennellato di olio.

Ingredienti  (Per circa 10 cestini)

Ricetta N°1
320 g di farina
70 g di olio di semi
70 g di vino bianco
2 uova intere medie
1 tuorlo
2 cucchiaini di lievito in polvere
Sale

Ricetta N° 2:
300 g di farina
80 g di olio extravergine di oliva
120 g di vino bianco secco (o spumante)
1 cucchiaino raso di sale

Per la crema di fave e pecorino:
450 gr di fave sgranate (non è necessario togliere la pellicina a meno che non usiate fave surgelate)
150 gr di acqua
30 gr di pecorino
40 gr di olio extravergine d’oliva
1 cipollotto
Sale
Pepe


Procedimento
Per preparare la base:
Impastate tutti gli ingredienti fino a ottenere un composto liscio ed elastico e lasciate riposare la pasta per una decina di minuti, trascorsi i quali sarà più  agevole lavorarla. Prelevatene delle piccole quantità e stendetele direttamente negli incavi dello stampo per muffin (o nelle cocottine monoporzione da budino) modellandone il bordo. La pasta tenderà a ritirarsi tornando nella sua posizione originaria, quindi eccedete un po’ nella quantità per riuscire a fissare il bordo.
Bucherellate con i rebbi di una forchetta ogni cestino, ricopritelo con un quadratino di carta forno e posizionate sopra dei legumi secchi per evitare che si gonfi in cottura.
Cuocete nel forno già caldo a 160° per circa 10-12 minuti o comunque fino a leggera doratura. Quindi sfornate i cestini, estraeteli dallo stampo (verranno via molto facilmente senza bisogno di forzare, ma in caso contrario lasciateli raffreddare un po’) e metteteli a raffreddare su una gratella.
Quando saranno completamente freddi (io li ho preparati il giorno prima), riempiteli a piacere.
Per la crema di fave e pecorino:
Soffriggete la parte bianca del cipollotto tritata, in 20 grammi d’olio, unite le fave, l’acqua, salate, pepate e lasciate cuocere, coperto, per una ventina di minuti.
Versatele quindi in un bicchierone, o una ciotola, capienti, unite il pecorino, il restante olio e frullate con cura. Se fosse necessario, aiutatevi fluidificando un po’ il composto con qualche goccio di latte. Dopo che il composto si sarà intiepidito, riempite i cstini e decorateli con una fava cruda e una scaglietta di pecorino. Profumate con uuna spolverata di pepe nero e servite.

N.B.: io ho preparato sia i cestini sia la crema il giorno precedente, avendo solo cura di tirare quest’ultima fuori dal frigo un paio d’ore prima di servirla (poi dipende dal clima..) e di stemperarla con un goccio di latte tiepido. Siccome ne erano avanzati un paio, il giorno successivo invece li ho direttamente scaldati nel forno già belli e ripieni e devo dire che, nonostante la pasta si fosse inevitabilmente ammorbidita, la crema invece ne aveva guadagnato in sapore. Quindi mi sento di dire che è molto meglio farla il giorno stesso e servirla nei cestini quando è ancora piuttosto tiepida.
Ho avuto modo di fare questi cestini già altre volte per servire contorni vari come:
-frittedda
-peperoni grigliati, tagliati a pezzetti e conditi (molto prima) con olio, sale, peperoncino e basilico; -patate lessate e sminuzzate condite con olio sale peperoncino e peperoni cruschi;
-melanzane al funghetto;
-piselli,
ecc. ec.



Con questa ricetta partecipo al contest del blog La Cucina Accanto

lunedì 9 maggio 2011

Vicoli, musica, colori, arabeschi…e un velo di malinconia che attraversa ogni cosa: Siviglia la sfarzosa

Alla fine siamo riusciti. E con appena un paio d’ore di ritardo che, di fronte alla prospettiva di una partenza, sono davvero niente. E pazienza che piovesse a dirotto anche una volta giunti a destinazione, o che il bus che collega l’aeroporto alla città fosse appena partito e ci è toccato aspettare quello successivo...anche questo, alla fine, fa parte del gioco e in fondo è divertente. Come il fatto di arrivare in albergo e lasciare i bagagli per correre dritti a mangiare, alle 11 di sera, scoprendo così di essere a due passi dal Barrio de Santa Cruz,
il cuore della città, giusto un passaggio veloce attraverso i bellissimi giardini Murillo, per poi trovarci catapultati tra vicoli e vicoletti, seduti in uno dei tanti posticini dove con quattro soldi mangi e tuffarci così immediatamente nell’atmosfera andalusa con un fantasioso assortimento di tapas
Ho sempre desiderato visitare Siviglia nel periodo della Settimana Santa per assistere alle sue famose processioni ma poi, anche il fatto di aver  potuto vedere in passato quelle di Madrid e di Barcellona, non ci ha fatto per nulla rimpiangere la fortuna di essere capitati in un altro momento molto particolare dell’anno. Sicuramente dai contenuti meno alti, ma anch’esso decisamente carico di suggestioni. Era infatti, quella appena passata, la settimana della Feria de Abril, una sorta di carnevale nostrano imperniato però sul tema del flamenco e dei suoi abiti sontuosi, in cui tutte le signore,
ma proprio tutte,
dalle più grandi
alle più piccine,






si travestono, con estrema cura dei dettagli:
dalle calzature apposite
ai ventagli sfavillanti
 e sfilano per la città a piedi
oppure a bordo di scenografiche carrozze,
Tutte nell’unica direzione del grande spazio riservato alla feria.
Chi se lo può permettere dà fondo a ogni risparmio pur di allestire la propria “caseta”
dove invita amici e parenti per nottate di mangiate, bevute e soprattutto balli sfrenati.
Sbirciare dentro ognuna è quasi inevitabile, data la ricchezza e la varietà degli arredi che ciascuno sceglie in una sorta di gara alla più bella e accogliente.
I meno fortunati non rinunciano a vestirsi di tutto punto e si accontentano di guadagnarsi uno spazio all’aperto,
 portando bibite e viveri e ballando sulla terra battuta al ritmo della musica più varia proveniente da ogni dove.
In questo periodo di festa Siviglia è soprattutto colore e musica, salvo poi svelare i suoi angoli più veri e nascosti,
solo spingendosi dentro un qualsiasi portone
O addentrandosi nei meandri della fortezza dell’Alcazar,
fatta di labirintici giardini
e sorprendenti giochi d’acqua
Ma Siviglia è anche la maestosità, colorata e luccicante, della fiabesca Plaza de Espana
O il contrasto cromatico dell’inquietante Plaza de Toros, ammantata di un intenso giallo ocra intervallato solo da due strisce continue di rosso sangue.
Piccola, raccolta, sfarzosa, esagerata nella strettezza dei vicoli colorati del Barrio o nella minuziosità dei particolari dell’immensa cattedrale
 Siviglia si offre così, con questo aspetto apparentemente scanzonato e allegro, ma sotto sotto attraversato da quel filo di malinconia che vela ogni cosa.
Magari dato proprio da quell’eccesso, come in un curioso contrappunto, di perfezione, di sontuosità, di ricchezza di particolari.
Pungola, sollecita, avvolge e poi si lascia guardare, scrutare, studiare senza mai svelarsi appieno.
Come una bellissima e misteriosa ballerina di flamenco nascosta negli strati innumerevoli del suo abito più sontuoso e colorato.






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